Lazio'900
Memorie sulla Resistenza, sulla Chiesa e il papa
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Metadati

Tipologia
Diario
Data
Data:
10/06/1941-03/12/1941
Consistenza
Tipologia:
pagina/e
Quantità:
130
Contenuto
Trascrizione del diario manoscritto:
Orvieto, 10 giugno ‘41
Da quando è venuta qui con me Loretta tutto si è trasformato: è come se l’oppressione sia alleggerita e le tenebre si siano chiarificate. Ero così afflitta e sconfortata in queste settimane passate, che avevo completamente abbandonato il mio libretto e questo rimaneva muto e solitario, poiché altrimenti avrebbe dovuto registrare troppo tristi avvenimenti. La Grecia, dopo agonia rapidissima, è stata sommersa, la Jugoslavia si è come volatilizzata, degli staterelli assurdi sono spuntati improvvisamente come funghi parassiti dalle rovine di un tronco putrefatto, mentre Mussolini ostentava giubilo di trionfatore, pur masticando amaro, Hitler in disparte sogghignava metà ironico e metà soddisfatto. Poi il tormento acuto di Creta sommersa da quella pioggia orribile di paracadutisti tedeschi, i quali straripavano per l’isola rocciosa e selvaggia, mentre i loro diabolici aeroplani bombardavano spietatamente le rovine splendide delle antiche civiltà. Così i tedeschi, [inconsci trasformatori], vanno suscitando per il mondo campi [inesausti] per gli archeologi di domani.
Ma il mio cuore rimaneva sbigottito. Di nuovo, come sempre, ogni nostra energia di ripresa veniva sommersa, ogni nostro movimento di autonomia paralizzato ed irriso. Il rullo compressore germanico proseguiva a sfiancarci spietatamente.
Come l’anno scorso, contemporanea alla crisi europea, una piccola, dolorosa, acuta crisi del ristretto ambiente che mi circonda. Ma come l’anno scorso tutto è stato più tragico e più epico nella lotta dei popoli e nella mia sofferenza personale, così quest’anno tutto è apparso più meschino e sconfortante nel crollo dei Balcani e nella miserabile rivalità tra le persone che mi circondavano. Interessi microscopici ed egoisti, ribellioni violente ma senza bagliore di idealità, sopraffazioni operate da deboli astuti e invidiosi, ingiustizie patite senza dignità, non riscattate da nobile fierezza. Tutto un intrigo melmoso e stagnante, che non merita l’onore di essere individuato. Tanto questo frollo e meschino ambiente della Gil è indegno di essere segnalato, è incapace di essere vivo. Ed i fascisti pretendono di scrivere la storia! Ne è sorta come vittima quasi solitaria una creatura buona, una che vuole rimanere cieca ad ogni costo: B., che vorrebbe recare ordine e spiritualità in questo scompiglio fatuo e borioso, che vorrebbe trovare un contenuto essenziale a questo vuoto egoismo, ristretto e casuale.
Così me ne sono partita per Roma tutta disgustata.
Sono tornata al Vaticano per riprendervi il mio lavoro storico su Teodorico e mi sono quasi tranquillizzata: un buon lavacro nell’eternità ha portato via le scorie del contingente e la riflessione sui fenomeni storici del medioevo mi ha restituito un certo equilibrio: il tempo ha purificato le passioni e gli egoismi del passato: la distanza riesce a mettere a fuoco i particolari e fa risaltare esattamente gli influssi reali tra causa ed effetto: tante cose si sono poi rivelate futili e passeggere, tante forze che sembravano vigorosissime si sono poi dissolte rapidamente come [larve] di esaltazione febbrile.
Poi sono tornata ad Orvieto per gli esami di maturità classica e Loretta è venuta con me. Erano molti mesi che non ci vedevamo e per lettera molte cose non si potevano scrivere.
Ci siamo immediatamente accorte che, malgrado la distanza e le barriere, tutte le nostre emozioni ed i nostri contrasti erano stati sostanzialmente identici. Ci siamo quasi meravigliate della concordia assoluta anche dei particolari: avevamo superato la medesima crisi e raggiunto la stessa certezza. Era inutile più illudersi sulle possibilità di ripresa dell’Italia attuale: soltanto la sconfitta della Germania e la vittoria dell’Inghilterra avrebbe potuto riaccendere la fede dell’umanità e ridarle il gusto della vita. Loretta era stata più fortunata di me: aveva trovato moltissime persone che condividevano questa nostra certezza: perciò era più sicura e tranquilla sull’esito della lotta. Io mi ero trovata però sola e smarrita, perciò avevo meno fiducia nella vittoria: tuttavia non credevo affatto che non valesse la pena di continuare a lottare e resistere: da questa nostra resistenza di oggi nascerà il significato e la giustificazione per la ripresa di domani. Anche se l’umanità dovrà subire una frattura profonda e dolorosa, bisognerà mantenere attivi tutti quei piccoli misteriosi tenaci legami che, malgrado ogni violenza, continueranno a tenere unite le parti distaccate: soltanto così la frattura potrà non essere una mutilazione.
Loretta mi ha raccontato tanti particolari interessantissimi sopra l’opposizione dell’Italia settentrionale. Ha visto i soldati partire per il fronte disgustati e frementi di rivolta; li ha visti ribellarsi; li ha ascoltati minacciare rivendicazioni e punizioni al loro ritorno. Carletto ha scritto dal fronte il giorno della caduta della Grecia, che non si perdessero di coraggio, perché si trattava di particolari dolorosi, ma comunque secondari, che Gregorio era così furioso contro Elisabetta proprio perché si rendeva conto di esserle inferiore. E Aida, la piccola fidanzata di Carletto, ha pianto il giorno della resa greca. E dire che il suo fidanzato cessava di correre i pericoli della guerra e dire che ogni conquista dell’Asse affretta la fine delle ostilità e di conseguenza la data del loro matrimonio! Non si può dire certo che questa nostra ribellione al fascismo sia provocata da interessi egoistici!
Molti episodi mi ha poi raccontato Loretta per cui si mostra chiaramente l’assoluta mancanza di odio che il popolo italiano, nel suo complesso, rivela nei riguardi degli inglesi. Specialmente marinai italiani ed inglesi fraternizzano sostanzialmente. Mi ha detto di quel marinaio che è andato in casa sua per ricercare prigionieri inglesi fuggiaschi. Al tempo della rivolta di Jugoslavia essi tentarono di fuggire per raggiungere gli alleati combattenti. Il marinaio italiano compiva il suo dovere scrupolosamente, conduceva l’inchiesta, insisteva nella ricerca; ma, alla minima insinuazione malevola contro i prigionieri fuggitivi, insorgeva con violento risentimento in loro difesa: egli ammirava il loro coraggio, comprendeva e stimava il loro senso di onore. Per quanto il fascismo si sia attivamente adoperato per contaminare la sensibilità del popolo italiano, non si può dire che vi sia riuscito pienamente. È forse questa la causa della sua sostanziale inattività. Hitler è riuscito a trascinare ad azione spasmodica il suo popolo, Mussolini è stato capace soltanto di paralizzarlo. Ma una buona parte di italiani è riuscita a sottrarsi alla narcosi, ed è strano come noi abbiamo un misterioso potere per riconoscerci, quasi un acutissimo sesto senso. E, per quanto l’Ovra si dica minacciosa e onnipresente, pure riusciamo sempre miracolosamente a sfuggirle. L’altro giorno in treno un signore mi si è fatto vicino: aveva un cane graziosissimo ed abbiamo incominciato a discorrere, del più e del meno sul principio, ma poi, quasi senza accorgercene, come nostro malgrado, si è caduti nel noto argomento. Lui viveva a Bolzano e diceva degli abitanti intrisi di propaganda germanica e di coloro che avevano [...], i quali non volevano andarsene, perché, dicevano apertamente, Hitler aveva promesso loro il Tirolo e la Germania, non la Germania soltanto. Ho finito di stupirmi (ogni tanto mi sforzo vanamente di essere prudente); “Ma ora questa tensione sarà cessata e i rapporti saranno più cordiali” “Ora è peggio di prima – ha risposto – i tedeschi sono indignati contro di noi, che non siamo capaci di vincere la nostra guerra. Dicono insistentemente: Voi sarete bravi agricoltori, ma non certo buoni industriali e prodi guerrieri. Senza di noi sareste fuori combattimento da un pezzo. Tutte cose che finiscono con l’indisporre”. E poi ha proseguito, descrivendone gli strani costumi e il rigido temperamento, il modo curioso e meccanico di divertirsi, di entusiasmarsi, di innamorarsi. E poi tutto ad un tratto, come se non potesse più frenarsi, mi ha sussurrato sottovoce: “Io non li posso soffrire”. Gli ho rivolto un sorriso radioso, rispondendo: “Neanche io!” Non era un agente provocatore: ci siamo separati amiconi e senza alcun sospetto reciproco.
Così nella nostra passeggiata con Loretta alle tombe etrusche. Ci ha condotte il custode dei monumenti, una personcina a modo, gentile, educatissimo, piuttosto colto, molto discreto e disinteressato. Abbiamo capito a fiuto che doveva essere uno dei nostri. È stato facile accertarsene dopo i primi approcci di scandaglio. Ma la sua storia era molto dolorosa: discendente da una buona famiglia esaltata di patriottismo, figlio di un repubblicano impoveritosi per politica, egli era scultore di professione e ripugnava ogni attività politica. Non aveva mai voluto iscriversi a nessun partito: cattolico e morigerato, non aveva interessi che per la sua arte. Alcuni suoi amici facinorosi e privi di professione, che egli aveva più volte aiutati nel momento del bisogno, insistettero a lungo perché si facesse fascista:
egli non volle. Ora i suoi amici son diventati gerarchi e fingono di non conoscerlo. Ma la sua resistenza fu perseguitata: per liberarsi dovette andarsene dal suo paese e rifugiarsi in una cittadina più grande. Ma anche lì fu raggiunto e identificato. Gli invasero lo studio, saccheggiarono i mobili, mutilarono le sue sculture: lavorava a quel tempo a una serie di altorilievi per una Via crucis, ha mormorato con nostalgia dolorosa: “Erano opere ben riuscite. Se non per la mia casa e la mia persona, avrebbero almeno dovuto aver rispetto per l’arte. Se non per l’arte, almeno per la figura di Cristo!”.
Ma i fascisti dicono di aver liberato l’Italia dalla profanazione del comunismo! Purtroppo lo ripetono anche alcuni cattolici!
Così quel povero artista perseguitato aveva dovuto scendere a poco a poco i gradini della scala sociale, fino a ridursi custode di musei. E per colmo di ironia, come funzionario di stato, ad un certo punto avevano imposto anche a lui la tessera del partito. Aveva famiglia, era disgustato e spoetizzato di una resistenza inutile ed isolata: si è inscritto, come tanti altri. Povera storia comune e banale, che ha ridotto un uomo onesto e dignitoso ad essere cacciato alla periferia come un rottame inservibile! Così il fascismo è riuscito ad imputridire tante vitalità ed entusiasmi.
Ci separammo da lui un po’ malinconiche e come avvilite.
Che fare per queste creature così sfiduciate? Ma lui ci era molto riconoscente, perché non gli capitava spesso di poter parlare liberamente e senza sospetto: sentir confermate da noi le sue stesse idee, sentir proclamati i suoi medesimi sentimenti dall’impeto del nostro entusiasmo giovanile lo rianimava e sembrava come un povero tizzo affumicato in cui il fuoco venisse risuscitato e che esplodesse scintille di liberazione.
Ma la storia più divertente è quella del nostro sconosciuto giornalista: qui la nostra prepotenza ha spezzato risolutamente tutte le barriere e il nostro intuito ha subito fiutato giusto.
Era molto tempo che leggevamo i suoi articoli con un misto di curiosità e di stupore. Sentivamo fra le sue righe fremere i nostri stessi sentimenti, le nostre medesime ribellioni, vedevamo come nobilmente evitasse ogni adulazione o luogo comune, come si mostrasse personale e indipendente, ma avevamo quasi paura di credere che fosse vero. Sapevamo benissimo che la massima parte dei giornalisti possiede in questi momenti le nostre stesse idee e condivide le nostre aspirazioni; ma questo in teoria, in pratica poi tutti servono docilmente il dio Mammone, tutti si inchinano ossequienti al padrone, o almeno se ne fanno i megafoni. E questo forse è ancora più disgustoso.
Fatto sta che Loretta si decise un giorno ad indirizzargli una lettera abilissima, in cui ella lodava la sua bravura ed onestà di scrittore e lasciava intravvedere molto chiaramente la vera causa di questa sua ammirazione. Egli rispose ed anche le sue parole erano fin troppo eloquenti. Decidemmo di andarlo a trovare. Furono momenti un po’ brutti, perché siamo ambedue timidissime e la situazione non era certo molto facile. Ma comunque ce ne partimmo appositamente da Orvieto, dopo aver deciso che doveva trattarsi di una persona dabbene e cortese, semplice ma raffinata e piuttosto “ancien régime”. Chissà perché, avevamo ben intuito perfino la sua situazione famigliare: doveva essere ammogliato con una signora dolce e graziosa, che si prendeva cura dei suoi articoli e, tra i suoi rampolli, non dovevano esserci che bambine: “Non è tipo da figli maschi” avevamo affermato categoricamente. Sbagliammo solo il taglio della sua giacca: non era una giacca sportiva. Ma del resto era naturale: non poteva avere che un vestito marrone scuro dal taglio molto rigido.
Partimmo animate da fiere intenzioni: se avesse avuto il distintivo all’occhiello, lo avremmo salutato con frasi generiche e fredde, per tornarcene poi ad Orvieto, dove avevamo scritto una novella umoristica, per freddare a nostra delusione. E invece… altro che delusione! Ma… procediamo con ordine!
Fu un po’ faticoso rintracciarlo, ma noi fummo ostinate. Potemmo parlare con lui al P. e capimmo subito che tutto andava benissimo. Ma quel colloquio in ambiente lavorativo e banale non sembrava fatto per le espansioni. Egli capì e ci dette appuntamento a casa sua. Là facemmo conoscenza con sua moglie e le sue bambine e ad un tratto diventammo amicissimi, ma proprio amici come se ci conoscessimo da anni. Infatti, a rigor di termini ci eravamo sempre un po’ conosciuti. L’eleganza della loro casa, la loro dolce felicità coniugale, la loro intelligenza luminosa e comprensiva, la loro cultura [larga] e profonda, la loro bontà semplice e nobile si intuivano perfettamente attraverso gli articoli settimanali e perciò quasi non stupirono più. Lui è brutto, molto brutto, ma di una bruttezza curiosa: a primo acchito non te ne accorgi, forse per l’eleganza della sua figura; quando poi riesci a constatarla, non ha più importanza: la simpatia e la fiducia ti hanno già stretto con legami ben tenaci alla sua persona: e allora può anche essere brutto. Sua moglie invece è molto graziosa e così cortese ed affabile, che non ci si accorge quasi della sua squisita educazione formale. Invece questa è raffinatissima, di tipo anglo-sassone, corretta dalla vivacità francese. Infatti non è italiana, ma appartiene per nascita al Common-wealth britannico e appare subito profondamente affezionata alla “esosa tirannica Albione”. Rimanemmo insieme a discorrere molto a lungo e noi sentimmo pronunciare le nostre stesse parole, sentimmo esprimere i nostri medesimi sentimenti: eppure non ci eravamo mai visti. Prima di andar via la signora ci disse con grazia affettuosa: “Ricordatevi che la nostra casa sarà sempre vostra amica”. E suo marito, accompagnandoci alla porta, ci raccomandava di tornare spesso, perché fa sempre piacere scambiare le nostre idee con chi ci comprende; mentre scendevamo le scale, ha aggiunto: “E poi… chissà!” E le sue parole ci sono sembrate quasi una promessa. Siamo uscite felicissime ed orgogliose della nostra audacia.
Che cos’è dunque questa forza che ci spinge gli uni verso gli altri, senza nessuna ragione apparente, senza interessi egoistici né curiosità banali? Che cos’è questo bisogno che abbiamo di conoscerci ed unirci, questa gioia che si prova nell’incontrarci? È certamente il sintomo di una necessità spirituale che tende a riunire quei pochi uomini (non troppo pochi del resto) che hanno ancora, malgrado tutto, fede nella forza della umanità, nell’autonomia dello spirito libero. La politica, la strategia militare, le lotte e le avidità sociali, lo stesso apostolato religioso non hanno niente a che fare con tutto questo. È un fenomeno soprattutto ed essenzialmente umano. Ed è forse per questo che ci ritroviamo tra noi, persone spesso comuni e niente affatto cupide, senza eccessive ambizioni, né pretese presuntuose di successo. Siamo povere persone, semplici creature umane, che vogliono unicamente vivere. Tutti gli spasmodici egoismi dei dittatori, tutte le brame furiose delle masse, tutti gli assurdi preconcetti delle razze non hanno senso per noi e soprattutto non hanno fascino per la nostra spiritualità. Anche gli ideali del nazionalismo tradizionale ed eroico hanno finito con l’apparire ai nostri occhi un po’ vecchi e come sfruttati. Anche la propaganda petulante e quasi avida che assumono certe forme di apostolato religioso ci si rivela ossessionante ed angusta, come se sminuisse la maestosa dignità di dio. Quello che noi sentiamo essenziale ed urgente è qualcosa di più semplice e quasi primitivo, di intimo ed evidente, di universale ed anche familiar popolare: il ritorno alla fratellanza umana. Questa vecchia parola assume per noi un significato stranamente nuovo, poiché è come la scoperta di un’antica dimenticata eterna verità. È necessario tornare a lei, quasi come un mitico [...]. Così infatti chiamavano i Greci quel meraviglioso viaggio di ritorno in cerca del fatale e prezioso tesoro che si era perduto durante il cammino della civiltà. Prima di rimettersi ad avanzare, bisogna rintracciarlo. E non importa se è necessario ritornare sui propri passi in questa ricerca. Forse durante il viaggio, come Ulisse e come Enea, ci accorgeremo di aver prima trascurato nella fretta tante nobili imprese che erano degne del nostro eroismo.

1) Abbiamo rinunciato a chimere e ad entusiasmi tradizionali che piacevano al nostro gusto e al nostro sentimentalismo: vi abbiamo rinunciato perché si sono rivelati inefficaci e fiacchi; abbiamo sofferto di questa delusione e di questa rinuncia. [non si trova il riferimento alla nota]


S. Pietro 29 giugno
Eppure non è giusto che la Germania abbia ragione perché è la forza più forte di tutte le forze. Non è giusto neanche se la sua forza vada considerata come strumento di Dio. È inutile resistere o fingere di non aver sentito: il discorso del papa oggi mi ha deluso. Non so perché, ma ne ho visto gli effetti: mai come oggi ho sentito violenti ed incontenibili in me gli impulsi della ribellione. Le altre volte i discorsi del papa mi avevano placato. Ed oggi anche [delle] mie rinunce private ho sentito salire implacabile la marea della rivolta. Ma ciò che riguarda me in privato poco importa. Del resto la nostra vita individuale adesso è come se si incidesse sulla superficie di una massa d’acqua in movimento; basta la più piccola ondata, il minimo flusso, perché si dilegui. Ma le parole del mio papa oggi mi hanno lasciato perplessa: due cose ha detto, due strane cose, che mi sono sembrate misteriose e come sfuggenti. Non bisogna inorridire di fronte alle brutali operazioni del chirurgo di Dio; la salvezza ci verrà da dove meno ce l’aspettiamo. Ho avuto paura: forse egli pure è assalito dallo scrupolo assurdo di non volerci irrigidire in posizioni di preconcetto, forse è pronto ad accettare comunque l’aiuto per le cause cristiane da qualunque parte provenga. Ho provato un brivido al pensiero improvviso: anche lui, senza volerlo, si fa promotore di quel famoso machiavellismo di cui l’unico non responsabile è il troppo calunniato Machiavelli: il fine giustifica i mezzi. Infine forse la “crociata contro il comunismo” ha dato un certo abbaglio anche a lui. I miei timori istintivi del momento in cui è cominciata la guerra contro la Russia si stanno rivelando ragionevoli. Ed io, al solito, vado contro corrente: dopo le prime ripugnanze di fronte al “nostro” casuale incontro e quasi accordo con i Russi bolscevichi, va penetrando in me adesso un’ondata di compassione sempre più comprensiva e quasi di tenerezza verso quel povero popolo così bersagliato. Non so, è difficile spiegarsi, è quasi come se ad un tratto io avessi improvvisamente scoperta l’anima di quel popolo. Anima coraggiosa e onesta, dopo tutto, se è capace di resistere con tanta energia a quel brutale, improvviso, ingiustificato attacco, anima non soggiogata e affranta, se è capace di impugnare risolutamente le armi per quel suo assurdo e chimerico ideale. È comunque una lezione dura ed umiliante, che riceviamo da questi orientali un po’ selvaggi, noi, raffinatissimi superbi occidentali, che siamo scesi in campo per bisogni di spazio vitale e posticini al sole, che non abbiamo saputo nobilmente sostenere le nostre tradizioni, le nostre dottrine, la nostra fede, che abbiamo dovunque ceduto alla brutale imposizione della forza. Ma c’è ancora in piedi, pallido, emaciato ed eroico, il nostro campione dell’Occidente ed egli non ha disdegnato di stringere la mano al figliol prodigo della famiglia europea, al quale tutti si erano accostati lusinghieri ed adulatori nel momento in cui sembrava furbo ed abilissimo, ma a cui soltanto l’Inghilterra si accosta nel momento del gran pericolo.
Ma forse proprio all’Inghilterra il papa si riferiva quando diceva che la nostra salvezza ci sarebbe venuta proprio da dove meno ce l’aspettiamo? Chissà? Forse queste mie preoccupazioni di oggi sono assurde e ingiustificate e passeranno domani come nuvole spazzate dal vento; ma è purtroppo innegabile che oggi il discorso del papa non mi ha affatto riconfortato. Solo una cosa mi riconforta: che l’Inghilterra riesce a prendere fiato in questa sosta, che gli spaventosi aeroplani germanici non la bombardano più così spietatamente e che la guerra italiana contro di lei pare si sia cristallizzata: se i tedeschi ci lasciassero liberi, credo che si farebbe subito la pace con l’Inghilterra, tanto è senza significato questa nostra assurda lotta estenuante.


8 luglio
Ho riletto il discorso del papa e mi ha fatto tutto un altro effetto. Anzi mi è sembrato, come sempre, coraggioso e chiarificatore. In alcuni punti poi è così stranamente poetico e sensitivo, che riempie di vibrazione. Ed è soprattutto intimamente, fortemente religioso. Chissà perché ho provato quella strana rivolta e come delusione l’altro giorno? Forse perché i nostri nervi sono esasperati da queste nuove schiaccianti vittorie di quei demoni. Sempre e dovunque riescono a stritolare, tutto son capaci di travolgere: sono veramente i demoni della guerra e della distruzione. Ecco perché, finita una vittima, si precipitano sempre più avidi ed insaziabili in cerca di una più pingue. Soltanto l’Inghilterra fino ad ora è riuscita a sottrarsi alla loro brama forsennata. Fino a quando? Ma… speriamo.
Eppure anche adesso ho come una vaga impressione di sfiducia in quello che dicono i giornali, come la sensazione di una forzatura. Ma è meglio non parlarne: forse non è che questo nostro desiderio di illuderci che ci fa vedere strani miraggi. Materialmente vinceranno, vinceranno dovunque, poiché essi devono ingoiare tutta la materia dell’umanità prima che finiscano strangolati dalla loro stessa voracità insaziabile.
Come per confermarsi nelle nostre fiduciose certezze spirituali, malgrado il disorientamento che vorrebbero gettare nei nostri spiriti, è uscito ieri quel magnifico articolo sul sangue nell’Osservatore Romano. La dottrina germanica del sangue è stata bollata con parole così ardenti ed inequivocabili, da distruggere ogni possibile compromesso. La parola, che sentiamo balzare istintiva dalla nostra ragione torturata, dal nostro sentimento contraffatto e travisato, è stata pronunciata con chiarezza nel quotidiano cattolico: “Satana è la scimmia di Dio!” e le parole dello sconosciuto giornalista non sono che traduzioni della parole di S. Agostino. Tutto questo con forza ed equilibrio di nuovo.


21 settembre (in treno)
Tanto tempo ho passato senza scrivere niente.
Eppure ho ammontato esperienze e pensieri, e ansie e soprattutto speranze (o illusioni?) luminosissime. Eppure adesso in questo momento di oppressione sento il bisogno di scrivere ancora. Chissà perché? Appena vacillano o esitano o ripiegano, allora una forza prepotente ci spinge a impegnare le nostre forze per aiutarli. Miseri aiuti in così vaste necessità! Chiusi e soffocati in questa vischiosa molliccia prigione fascista, non sappiamo più come riuscire a tendere a loro che lottano la mano della nostra fraternità. Ed ecco che ognuno di noi si raccoglie in se stesso per rinsaldare la convinzione e la fiducia della nostra giustizia, per ribadire la fermezza della nostra decisione. Mai come in questi giorni X ha scritto tanti articoli confortanti nei nostri giornali, in tutti i giornali che i fascisti pretendono propri, e ha compiuto prodigi di abilità per disbrigarsi dalle maglie della censura pur rimanendo sempre fedele a se stesso. Mi ha quasi spaventato per la sua audacia, ma poi sempre riusciva ad equilibrarsi per sottrarsi ai colpi della persecuzione. La sua agilità è veramente prodigiosa e intanto noi, a dispetto dei fascisti e per merito della loro stupidità, abbiamo la nostra voce, abbiamo la stampa che ci rappresenta. Però il gioco di questi giornalisti è veramente pericoloso. L’ho incontrato l’altro giorno e mi è venuto incontro tutto festoso: eravamo per la strada ed io non ero sola, perciò ben poco abbiamo potuto dire, ma ho capito che sta passando un periodo un po’ ansioso: in redazione sono preoccupati per i suoi articoli che sono costretti a mutilare. Del resto il loro giornale di questa settimana appariva molto camuffato e come travisato; molti dei nomi che io ben conosco come dei nostri erano mancanti, in prima pagina figurava come articolo di fondo una grossolana filastrocca adulatoria scritta da quello che essi chiamano il passaposto del loro giornale, soltanto il suo articolo figurava sdegnoso e palpitante, vivo della nostra attuale sovraeccitazione. Ci ha scritto quest’estate, a Loretta e a me, una lettera talmente eloquente nel suo velato linguaggio spigliato di leggerezza mondana, ma trasparente di sottintesi. Non avevamo stabilito insieme il nostro linguaggio convenzionale eppure si faceva capire con chiarezza sbalorditiva. La sua penna è abilissima ed affilata da lungo esercizio.
Belle e attive sono state le giornate trascorse con Loretta questa estate. Mentre abbiamo divorato con le biciclette tanti km di strada e contemplato così splendenti paesaggi, e superato piacevoli ascensioni, il nostro spirito è stato sollevato dalla realtà polverosa della vita consueta ed ha afferrato la sicurezza di una realtà superiore, che sarà frutto della nostra vera attività, quella che ci siamo scelti. I fascisti avranno i detriti della nostra vitalità, l’energia fiacca e fumosa che serve per conquistarci la nostra vita materiale e soddisfare i suoi miseri, ma pure urgenti bisogni. Ma l’energia scintillante del nostro spirito evade libera e mobilissima ad operare lontano da loro, anzi ormai, poiché l’hanno proprio voluto, contro la loro inutile brutalità. Ed è forte, gioiosa, fertilissima questa nostra energia e soprattutto è capace di creare legami forti ed improvvisi, ma profondi, tenaci, saldati da questa nostra irresistibile felicità di risurrezione.
Ricordo il giovane alpino che veniva da noi la sera a sfogare la sua sofferenza, a rivelarci la sua angosciosa insoddisfatta ansia di eroismo e i bottegai sobillatori che ci parlavano sottovoce rivelandoci le più sensazionali notizie tratte dalle innumerevoli radio clandestine, e intanto ci rubavano tranquillamente sul peso, mentre noi, estasiate, fingevamo di non vedere. E i sussurrii e i lamenti e le timide obiezioni che ciascuno riversava con audacia trepidante nella nostra premurosa spregiudicata complicità. E la perplessa agitazione che assalì il giovane Paolo, coraggioso fanciullo che presto avrebbero sbattuto sopra l’instabile sostegno di una mal costruita nave da guerra: inquieto e pensoso ci ascoltava, mentre con franchezza assillante e spietata gli avventavano le obiezioni che il suo stesso giovane cuore gli sobillava. E la lotta aspra e risolta contro lo stolto zio di Lorella, che ripeteva luoghi comuni di dileggio e di esaltazione, mentre curava cupidamente la sua saporosa cucina. E intanto la gioia di sentire che non eravamo sole e la vitalità sempre più rinfrancata della voce inglese insieme all’eroismo sempre più formidabile e sanguinoso dell’olocausto russo, purificante quel popolo misterioso, così ingiustamente e vilmente contrapposto alla vecchia propaganda pavida e smorta dei timidi e degli inetti.
Ma l’estate è trascorsa come un lampo di gloria vittoriosa e poi ora inoltra l’autunno grigio e stagnante di perplessità. Poi verrà l’inverno che gela e farà soffrire ancora più acutamente tante creature misere che ora devono scontare la grande colpa di non avere osato, tanti eroi sventurati che devono riscattare col loro sacrificio la vile menzogna della più bassa umanità.


Sabato 4
Cominciano più dure le persecuzioni. X è stato bollato e bandito: troppo audace ed eloquente si era rivelato in questi ultimi giorni. Un fanciullo di 21 anni è stato incarcerato e si è come dileguato, ma i suoi compagni son riusciti a sottrarre le sue carte compromettenti per gli altri. E anche un altro giovane viene perseguitato e io non posso saperne nulla, perché la famiglia si isola nel mistero per salvarlo. Ma è meglio così: se i fascisti si ergono più velenosi, vuol dire che si sentono deboli. D’altra parte è meglio che la sofferenza acuta rinsaldi la nostra ribellione, ogni rivolta soffocata minaccia di stagnarsi. È forse perché intuivano cioè che i fascisti hanno compiuto sempre le loro oppressioni nell’ombra cupa di quella loro subdola e insidiosa polizia. Ma adesso non riescono più a tener nascosti i loro misfatti: essi trapelano attraverso la trama sempre più logora della loro potenza. Sono contenta di aver avuto proprio in questi giorni la richiesta diretta della mia collaborazione. Facile e inoffensiva è in apparenza la piccola azione che mi è stata chiesta, ma intuisco che su ben più profonde radici si viene ad innestare. È curioso: non ho molta simpatia e profonda fiducia per quel signore che me l’ha offerta, anzi una volta diffidavo molto di lui. E ancora l’altra sera, quando in mezzo a quel buio cupo, appena punteggiato da piccoli bagliori, mi ha sussurrato che mi avrebbe aspettato presto, ho provato di nuovo quella vecchia puntura di diffidenza. Nulla vedo chiaro in lui, neanche i suoi sentimenti di uomo nei miei riguardi: sono sempre un po’ torbidi e ambigui questi giovani educati nei circoli cattolici. E questo non è più neanche giovanissimo ed ha anche un substrato di esperienze, che intuisco varie e contrastanti e come un po’ subdole. Non mi è mai piaciuto, ma credo di capire ora che è più ricco e complesso e anche forse più puro e generoso di quanto non sembri in apparenza. Non so. Forse riuscirà veramente a concludere qualche cosa. [...] sempre solo. E soprattutto non sembra aver dimenticato le parole con cui io credevo allora di lottare contro un nemico che sembrava appartenere all’altra sponda. Anche allora non ero molto rassicurata sulla sua lealtà, eppure parlavo con la mia solita imprudente sincerità. Sarà dunque inesperienza la mia. Forse sì. Forse è anche disperazione. È certo che ormai sento che non è più il momento di tergiversare; e poiché mi si è dischiuso lo spiraglio di un’azione, agirò. Non voglio avere il rimorso di aver esitato per qualcosa, che, comunque, potrebbe essere vigliaccheria.


21 ottobre
(copiato dalle schedine scritte sul posto)
Nel rifugio del Barberini
Siccome è molto noioso finire la serata in un rifugio proprio mentre si stava guardando questo grazioso e frizzante film americano, voglio riprendere contatto col mio abbandonato libretto.
Chissà perché, non riesco più a trovare il tempo per scrivere. Forse è colpa di Teodorico che assorbe la mia attività di “stilografica?”, forse della molta gente che ho sempre vicino e mi impedisce la solitudine, forse, chissà, è anche colpa della mia crescente demoralizzazione. Speravo sempre di veder l’Italia risvegliarsi e riscuotersi… invece niente, invece sempre questo scontento mormorante, ma sottomesso. Come stasera quando ci hanno ficcato in questa specie di magazzino-palcoscenico, che sarebbe il ricovero del più elegante cinema di Roma. Tutto legno, carta-pesta e tela-paglia: basterebbe un cerino perché si dissolvesse in una bella fiammata. Davvero i fascisti si sono preoccupati di tutelare la popolazione contro le incursioni nemiche! E quel che è più comico, vogliono fare sul serio il gioco della contraerea, vogliono far vedere di essere disciplinati e obbedienti e stupidi, proprio come i tedeschi. Ma il pubblico romano ha ormai capito bene che gli inglesi a Roma non ci vogliono venire, che hanno stabilito di rispettare la Città Eterna, per quanto ormai non si capisca bene da quale eccessivo scrupolo siano trattenuti, or che anche il clero cattolico, se non il Vaticano, si mostra così bestialmente passivo o strisciante.
Dunque gli spettatori non intendevano uscire dalla sala, ma se ne rimanevano comodamente sdraiati nelle poltrone, aspettando che, prima o poi, si decidessero a riprendere il film, che tanto ci divertiva. Ci cacciarono una prima volta. Passata circa un’ora di attesa, poco alla volta, se ne ritornarono in sala. Ma poi venne il truce maresciallo, con fiero cipiglio, a sgombrare l’aula. E il pubblico cominciò a sghignazzare e a sbeffeggiarlo. Egli allora si infuriò e si incaponì: voleva compiere “il suo dovere”. E il pubblico cominciò a fluire lentissimamente, impuntandosi, soffermandosi, lanciando all’indirizzo del funzionario zelante, piccole, acute frecciate, che facevano ridere e dimenticare. Ed ora siamo di nuovo tutti stipati e appollaiati su per questa stamberga. Ribellarsi, rifiutare obbedienza? E perché mai? Sembrava una cosa di pessimo gusto. E allora abbiamo obbedito. E così, sempre, nelle piccole come nelle grandi cose, un po’ per stanchezza, un po’ per buon senso, molto per indifferenza, parecchio per reciproca suggestione, ma non credo per vigliaccheria.
Non so perché, ma oggi non mi sembra vile questo mio popolo, che ha vivi bagliori negli occhi limpidi, un po’ fanciulleschi, e morbide, dolci inflessioni nelle voci sonore. Sento le sue voci accavallarsi ondulate, come il flusso di una corrente pacata ed armoniosa e, malgrado tutto, sento ancora di amarlo questo mio povero popolo indifferente e dissennato, non so perché. Che cosa farà? Dove andrà a finire? Chi potrà mai saperlo? Eppure non posso proprio disperare di lui.
Ma ieri ho visto il nostro amico così malinconico ed abbattuto, sotto il nuovo colpo di quegli insipienti. Al solito, non l’hanno attaccato di fronte, non l’hanno costretto a rivelarsi, né a protestare. No, l’hanno irretito paralizzandolo con i loro subdoli imbrogli, gli hanno interdetto di far sentire la sua voce, di propagare la sua vitalità.
E lui si è ripiegato su se stesso, con una ribellione sorda e muta, stagnante di rassegnazione. La moglie era più eccitata e veramente avrebbe voluto assaporare il gusto della persecuzione. Ma no, neanche questo orgoglio ci concedono. Troppo sono molli essi stessi e sfibrati, perché possano urtarci con spigoli aguzzi. Ci consumano, ecco tutto, tentando di levigarci. E domani forse tutti saremo livellati. Anche io? Mi sembra impossibile. La mia ribellione si dibatte sempre ostinata e fremente, ma non riesce a scuotere gli altri: può tutto al più stupirli, interessarli, forse anche divertirli, a volte eccitare la loro sorpresa ammirazione. Ma poi ricadono nella loro apatia.
E intanto anche i Russi sono risucchiati da quella diabolica orda famelica. Ma come ancora disperatamente si difendono! Non sembra una resa la loro, ma quasi una dignitosa manovra, accettata e compiuta con sicurezza consapevole della sua utilità. E forse veramente non resterà vana la loro sovraumana resistenza: per il loro cuore è certamente efficacissima e anche per il loro riscatto. Il mondo li aveva respinti ai margini scuri della umanità, come un detrito, come un malato contagioso che debba essere segregato in un lazzaretto. E loro invece sono riapparsi prorompenti, per mostrarci tutta l’effervescenza della loro turgida vitalità e poi forse per morire. Ma Dio li salvi dalla morte totale, Dio li salvi presso l’agonia e li risollevi con la sua benedizione! E allora noi potremo ritrovarli, frementi e [...] di curiosità, come belve addomesticate. Ma di una cosa siamo sicuri, grazie a Dio: essi non si sottometteranno all’invasore tedesco, neanche per un momento di stanchezza e di sosta, come, purtroppo, hanno fatto i francesi. I Russi con i nemici non scendono a patti. E come muoiono serenamente! Come se fosse questo il più semplice dei doveri umani. Ed in realtà la morte deve essere un dovere facile a compiersi. Molto più difficile e complicato è il dovere della vita.
Ma la gente torna nella sala. È inutile, non ce la fanno a piegarla definitivamente. Come se fosse elastica, torna alla posizione che più le si addice. Sento gridare energicamente: voglio tornare anch’io: voglio vedere come va a finire. Eccomi giunta: sono qui seduta comodamente in una poltrona: il burbero carabiniere è sparito e le altre guardie hanno fraternizzato col pubblico ribelle. Evviva: l’Italia ha ancora, per lo meno, parecchie persone di spirito! Però qui è troppo buio, non posso più scrivere: forse mi addormenterò. Ma intanto i  napoletani trepideranno palpitanti nei rifugi e domani troveranno le loro case scoperchiate al sole… o forse alla pioggia. Tutto questo per chi?


Roma, 8 novembre
Oggi ho sentito la sua voce allegra per telefono; eppure devono essere tristi questi giorni per loro. Devono lasciare quella bella casa di Roma antica e rifugiarsi laggiù alla periferia lontana, come impiegatucci micragnosi. Sono quasi diventati poveri: “Morale elevatissimo”. E ieri ho ancora scoperto un’intera famiglia di nostri amici. Mi sembra di essere rinfrancata. E poi ho tante cose da fare e quella eccitante visita, che mi spaventa e mi affascina. Chissà quando dovrò partire? Purché riesca a vincere la mia timidezza! Temo di essere incapacissima di fronte a quelle difficili piccole manovre di approccio. Ma qualche santo mi aiuterà! Ma chissà poi che tutto non sfumi nella nebulosa delle fantasie. Speriamo bene!


18 novembre
Sono in classe, a sorvegliare le bambine, mentre la voce monotona e sbiadita di questo noiosissimo signore, di cui non ho afferrato il nome, commemora lamentosamente l’anniversario delle sanzioni. Mi piace scrivere sul mio libretto proprio in questo momento, mentre le bambine svagate e distratte tacciono soltanto perché ogni tanto io fingo di guardarle con fiero cipiglio. I loro cuori non sembrano affatto [...] e indignati contro la famigerata iniquità inglese. I fascisti non hanno voluto affidare alla iniziativa dei professori la commemorazione di questa data, solenne per l’esaltazione dell’assoluta incapacità mussoliniana nel campo della politica internazionale, celebra il suo fallimento definitivo nel campo dei rapporti con l’estero: contro gli stati stranieri non gli giovava affatto, come nell’interno della sua sbigottita nazione, fare la voce grossa per affermare di avere ragione.
Essi temevano forse che noi avremmo lasciata trasparire la verità e così hanno trasmesso la voce ufficiale attraverso gli altoparlanti. Conclusione: i ragazzi non hanno ascoltato nulla, come sempre avviene delle cose automatiche: sono come un brusio informe che cadenza il ritmo delle piccole occupazioni materiali e favorisce il volo della fantasia. Del resto proprio questa era la commemorazione che meritava il 18 novembre: una voce monotona che non occorre venisse ascoltata.


8 dicembre
E così anche il Giappone è entrato in guerra: con rabbia furiosa ha attaccato senza il minimo rispetto del diritto internazionale, mentre ancora si svolgevano le trattative con W. È proprio la Germania dell’Est! Ma forse ancora più temibile e subdola. La sua violenza mi ha terrificato. Del resto sempre ogni spostamento della situazione mi spaventa. Ricordo il cupo terrore che mi prese quando fu aggredita la Russia. Come un oscuro presentimento di cose tragiche. E in fondo era ingiustificato. Ma sempre, quando si allarga la sfera della sua lotta, hanno per l’Inghilterra. Come potrà resistere a tanta tensione? Lei, così fragile e, in fondo, così poco bellicosa? La sua energia e la compattezza del suo giusto orgoglio possono dar prova di resistenza mirabile, ma potrà non essere dilaniata da tutti questi vampiri sitibondi?
Degli Stati Uniti, confesso, non ho alcuna fiducia. Da bravi ragazzi intrepidi e un po’ scafati si sono gettati nell’avventura della guerra, ma già ai primi colpi sanguinano abbondantemente. E si sono rivelati subito così incapaci di fare sul serio. La guerra è un gioco crudele, a cui non sembrano preparati quei giovanottoni esuberanti e felici, sfavillanti di buonumore. Ma chissà poi se i veri americani assomigliano agli attori di Hollywood? Forse anche loro sono capaci di bramosia e di violenza. Ad ogni modo, ripeto, ho poca fiducia. È la loro prima guerra vera e poi non si capisce perché mai la debbano fare. Per l’imperialismo mondiale? Hanno troppo spirito per prenderlo sul serio! Per la difesa del Pacifico? Ma in realtà sono troppo distanti dal Giappone, per sentirsi veramente minacciati. E allora perché? Per cavalleria verso l’Inghilterra?
Non mi sembrano così romantici. Forse per senso d’onore: è umiliante star inerti, mentre tutto il mondo si dilania: è assurdo avere un’idea, quando non si è pronti a sistemarla col proprio pericolo. Ma questo mi sembra un modo di ragionare europeo. Potrà essere uno sbaglio o un luogo comune, ma noi siamo usi a giudicare gli americani troppo pratici e positivi per abbandonarsi a preoccupazioni sentimentali o scrupoli ideologici. Forse Roosevelt si è lasciato trasportare troppo dall’impeto della sua indignazione generosa, forse l’America sconterà duramente la sua prima follia altruistica. È certo però che anch’essa ormai si è impegnata a fondo; sembra anzi sia stata impaziente e si sia spinta a provare, perché non le rimane più la possibilità di restare dietro le quinte. E se era impaziente di agire, vuol dire ad ogni modo che sentiva una necessità di maturazione più rischiosa. Ad ogni modo staremo a vedere. Anche lei, come tutti si è gettata in campo per manifestare chiaramente se stessa in questa guerra rivelatrice. Vediamo che cosa sarà capace di fare. Intanto però due cose mi fanno dolorare in questo allargamento inesorabile della guerra nel Pacifico. Il timore che uno scacco americano si ripercuota troppo duramente sulla già troppo provata sensibilità britannica e la pena acuta e fosse stoltamente sentimentale che anche i popoli tranquilli delle ridenti isole oceaniche debbano esser straziati dagli orrori della guerra. Sentire la notizia del feroce bombardamento subito a Pearl Harbour mi ha fatto fremere di raccapriccio: le isole serene, i cui nomi facevano pensare a canzoni nostalgiche di timbri metallici o al sapore riconfortante di panini imburrati, saranno anch’esse  rintronate dall’urlo diabolico delle macchine da guerra. E la gioventù inghirlandata di corone floreali sgranerà gli occhi limpidi e stupiti di di fronte alla furia rabbiosa di questi strani uomini gialli e rasati che, eccitati da una loro spasmodica agitazione di insofferenza, si precipitano sule placide isole verdeggianti a strappare la loro pace. E tutto questo perché? Perché quegli uomini strani sono incapaci di liberarsi dallo spettro della loro nullità sostanziale.


12 dicembre
E così oggi ci sono le dimostrazioni. Le lezioni sono state regolarmente interrotte, i ragazzi hanno sciamato per le strade tutti contenti di fare vacanza, la forza pubblica li sorveglia paternamente, mentre le autorità li seguono con indulgente benevolenza. Ma il popolo guarda triste e scontento, i soldati masticano rabbiosi insulti aspri e soffocati: la pagliacciata stolta li indigna, dopo tanto dolore, in mezzo a così grande tragedia. Ed io guardo con disgusto amaro, ma rassegnato. Ricordo la violenza indomabile con cui mi ribellai a queste farse allora, in quel tempo ormai mitico, in cui ci si illudeva ancora di poter impedire la catastrofe. Adesso tutto va avanti da solo, alla deriva e noi non ne sentiamo più che la nausea. Ma i fascisti cominciano a fremere, sentono serpeggiare brividi di paura. Hanno però ancora qualche conforto, intravedono l’ancora di salvezza. Se davvero i tedeschi non riusciranno a sfondare il fronte russo, se, come sembra di capire, gli inglesi sono padroni dell’iniziativa in Marmarica, ecco sorgere all’orizzonte un’altra fata Morgana. Il Giappone, il Giappone è forte e vittorioso: ha affondato 5 corazzate anglosassoni in tre giorni! Dunque, evviva il Giappone! Così la dimostrazione di oggi non è contro l’America, ma pro-Giappone, come è documentato nei nostri registri di classe. Perciò quel miserabile ieri ha blaterato di essere orgoglioso per il privilegio concessogli di combattere vicino ad un popolo così potente. E ha pregato il popolo di prender nota delle sue parole: temeva che la sua adulazione non giungesse ben chiara alle orecchie del nuovo padrone della situazione e ha spinto la sua plebe farneticante a ribadirne la risonanza.
Non so più che cosa sia capace di fare questa nostra misera Italia. Oppressa e sanguinante, viene sbattuta in una lotta inumana, che non la riguarda e di cui non capisce il significato. Si parla ovunque delle vittorie della Germania, delle sue immani prodezze, si esalta ora da una leggenda improvvisata e spasimante l’eroismo mostruoso di aviatori giapponesi che si gettano giù sulle navi nemiche con tutto il carico di esplosivo, abbandonando l’apparecchio senza controllo.
Si parla anche, raramente, dei nostri soldati che resistono esausti, che sono accerchiati, che non vogliono arrendersi, che poi devono cedere, ma poi ottengono onori di rispettosa e pietosa ammirazione dai generali nemici. Ma a questo si fa poco caso, tanto si sa, quando la guerra sarà vinta, ogni cosa tornerà automaticamente al suo posto. Vittoria, vincere, vinceremo: parole sbiadite e consunte, logore dall’uso: risuonano ossessionanti e monotone alle nostre orecchie, con la falsa risonanza di timbro propria dei metalli impuri. E intanto si sente la nostalgia di tutte queste cose care che si sfaldano lentamente inesorabilmente, mentre stilla dolorosa nel nostro animo la convinzione della nostra impotenza.
In questi momenti pericolosi i fascisti riprendono a perseguitarci con quella loro persecuzione lenta e assillante, che sembra il risucchio melmoso di una palude. Ancora come due anni fa piovono su di me ammonizioni e consigli di tutte le persone prudenti che mi vogliono bene. Quanta prudenza solerte mi circonda, ma soprattutto quanta apatia rassegnata, anche se a volte presenta guizzi di spasmodica interrogazione! Eppure io non sento il bisogno e neanche il desiderio di salvarmi, non porto l’istinto della conservazione. Ricordo quell’episodio di Shelley, quando il maestro di nuoto voleva insegnargli a nuotare: egli non aveva l’istinto della ripresa per mantenersi a galla; si lasciava sommergere dalle acque. E Shelley è morto affogato.


Roma 30 gennaio
E così abbiamo rioccupato Bengasi. Queste povere terre di Libia sono sballottate rapidamente dall’uno all’altro combattente, corse e stritolate da carri armati germanici ed anglosassoni. Gli inglesi fanno sforzi affannosi verso la Sirte, oltrepassano Agedabia, puntano trepidanti su Tripoli e poi sono sbalzati indietro dall’ondata germanica che li respinge come una catapulta a molla. Dove si fermeranno? A Tobruk anche questa volta o si ritrarranno più indietro? Saranno capaci di difendere l’Egitto dopo la seconda sconfitta? Chissà? Sono così curiosi con il loro modo di combattere! Quando crediamo che siano in ripresa, è proprio il momento che precede il collasso; quando sembrano sull’orlo della rovina, misteriosamente si risollevano. Non mi stupirei se finissero col perdere l’Egitto, e invece riuscissero a salvare Singapore!
E noi intanto, noi italiani, che stiamo facendo? Come fanciulli sconsiderati che si intrufolano in mezzo alle questioni dei grandi, ci diamo da fare con molto fracasso, un po’ disorientando e un po’ sorprendendo. Buttatici giù alla cieca in una guerra assurda, che non sentivamo e per cui non eravamo pronti, ci troviamo ormai impigliati in mezzo ad un gioco spaventoso, che un po’ ci disgusta, ma anche molto ci affascina. E si combatte così isolatamente, con uno strano senso d’onore individuale, che stona meravigliosamente con la piatta e vile propaganda fascista, strisciante all’ultimo alleato vincitore. Non a caso le gesta più eroiche e sensazionali della nostra guerra sono tutte episodi di difesa disperata e accanita, ma tragicamente vana: Bardia, Giarabub, Cheren, Uolchefit, Gondar, Sollum, Halfaya… Tutte sconfitte gloriose, in cui si è salvato l’onore. E la guerra prosegue sempre più spaventosa mentre il volto della vittoria diviene sempre più distante e confuso e soprattutto più enigmatico. Si sente l’incalzare dei suoi flutti voraci sempre più vicini: i nostri uomini partono più numerosi. I cibi scarseggiano, gli spiriti si inaspriscono. E intanto lentamente i cuori induriscono per l’accumularsi di tante sofferenze. L’apatia del fatalismo e della rassegnazione passiva paralizza le anime, impedisce le ribellioni. E i cattivi prosperano sorridenti, anzi sogghignanti. La guerra è una cosa cattiva: Dio voglia che non sia inutile. Strane queste mie giornate di immobilità in mezzo a così tempestoso movimento! La sciatica è una curiosa e assurda malattia per la mia età e soprattutto per il mio temperamento. Mi immobilizza il corpo e mi placa anche lo spirito, che si pulisce un po’ nella sofferenza fisica. E così i fascisti hanno anche con me felicemente risolto il loro problema: non potevano impedirmi di vivere, ma non ardivano finirmi; così il buon Dio ha risolto la questione, immobilizzandomi per un po’ di tempo. E intanto le cose si placano, come sempre, inevitabilmente, e poi ricominceremo da capo a nostra assurda lotta senza conclusione: io, povera rotella dispettosa, che non vuol sottomettersi ad ingranare in quel loro diabolico meccanismo tirannico, rugginoso e mal [congegnato]; loro, meccanici maldestri, che non hanno saputo costruire il loro ordigno e perciò infuriano contro i singoli pezzi, accusandoli del mancato funzionamento. E continuano a cambiarli, e proseguono a tormentarli, indispettiti e furiosi per la loro incapacità: ma un’oscura coscienza della propria colpevolezza impedisce loro di colpirci troppo duramente e, dopo averci attaccati, di nuovo si piegano a chiedere la nostra collaborazione. E noi, sdegnosi e recalcitranti, impietositi e caritatevoli, distratti ed ironici, a volte anche sarcastici e profitattori, noi porgiamo il nostro aiuto, noi secondiamo il loro miserabile gioco. E ci roviniamo con loro.
Ma intanto, grazie alla sciatica, io sono n riposo, come un vecchio generale in pensione, e leggo libri inglesi. È il modo migliore per star loro vicino e, sembra buffo, quasi per aiutarli. Ho finito di leggere Rebecca. È un bel libro. È la prima volta che mi piace veramente un libro che ha avuto tanta popolarità. Il successo immediato generalmente è portato ai libri da una loro vanitosa capacità di insinuarsi nelle piccole pieghe della psicologia capricciosa del pubblico, volubile e abbastanza grossolano nel suo sentimentalismo. Assomiglia alle piaggerie dei grandi verso le masse: sono più meschine e più facili che le adulazioni rivolte dai cortigiani verso i potenti: più meschine, perché è miserabile elemosinare da chi è più povero; più facile, perché ci vuol poco a far colpo sopra le folle, avide di novità e sostanzialmente di buona bocca, e inoltre perché si può contare sulla grande forza di reciproca suggestione. Ma in Rebecca non ho scoperto nessuno di tali disgustosi istrionismi. Rebecca è un libro delicato e semplice, romantico e buono, molto nostalgico per qualche cosa che è sul punto di dileguarsi. Il protagonista di questa specie di romanzo giallo della vecchia aristocrazia inglese, secondo me, è Manderley, quel bel castello che finisce preda del fuoco. E istintivo e come penoso mi si è imposto il confronto: preziosissima creazione di vita raffinata e gentile, lentamente perfezionatasi attraverso generazioni e spiritualità in sempre più evoluto affinamento, Manderley, come l’Inghilterra, di cui è l’espressione e la sintesi, crolla distrutto dal fanatismo e dalla delinquenza che non hanno potuto contaminare il suo onore, né togliere il segreto della sua bellezza. Non sono sconfitti i suoi proprietari, non sono disonesti e neanche divisi, forse neanche sono impoveriti e tanto meno immiseriti, ma sono privati della loro essenza. Come pesci fuori del loro ampio elemento, boccheggiano ansiosi in una piccola vasca. Così forse li vedremo vivere domani questi nobili inglesi, spodestati della loro grandezza, chiusi e malinconici in una dignitosa ma squallida banalità.


ore 18
Ho letto in questo momento un articolo dall’Osservatore. Corretto, sereno, ma inesorabile, non fa che ricopiare alcuni capitoli da un libro tedesco, che ha avuto grande divulgazione: parla del cristianesimo: l’Osservatore non fa commenti. Ma quell’autore è pazzo: dice parole sconnesse ed allucinate, tra cui ritorna, insistente come uno stillicidio, il grido che la guerra è contro Roma, la lotta contro la Croce, che la Germania è santa, la Germania è la terra promessa. Ma com’è possibile che vincano uomini pazzi? Capisco che per un certo tempo essi facciano inorridire la gente contro cui si rivolgono, capisco che per un momento sbigottiscano le coscienze, che facciano dubitare gli uomini del proprio equilibrio, ma poi dovrà pure giungere la ripresa, ci sarà bene qualcuno che riaprirà i manicomi.
Si potrebbe fare un bellissimo film di propaganda anti-nazista: un grottesco, giocando sulla sicurezza di sé propria dei matti e sulla debolezza di difesa rimasta ai savi. E per far rilevare quanto il pazzo sia astuto e come possa approfittare di quel ramo di pazzia che ciascun uomo possiede e intendersi con le masse su quella zona, mentre la violenza della suggestione aiuta vigorosamente quella loro attività, finché l’allucinazione di uno finisce col diventare mania collettiva e straripa irresistibile. I pochi savi (tutti savi) sono facilmente identificati e rinchiusi nei manicomi e allora i pazzi, esultanti, si mettono a riformare il mondo. Però si trovano dopo di fronte un’altra maggioranza, che è molto pericolosa. La massima parte dell’umanità non è né tutta savia, né tutta pazza: è un misto di pazzia e di saggezza con le dosi variamente distribuite. E quel tanto di saviezza, che è rimasto agli uomini suggestionati, intralcia la lucidezza rettilinea nei piani dei veri pazzi, proprio come prima era capitato ai veri savi per quel tanto di inevitabile pazzia umana. Così avviene che gli uomini poco alla volta, quasi senza accorgersene, vengono liberando i savi rinchiusi nei manicomi, e questi febbrilmente si armano alla lotta. Ma ormai i pazzi si credono savi, perciò spingono le masse alla lotta in nome della legge e della moralità, in nome anche della religione. E i poveri uomini, mezzi savi e mezzi pazzi, rimangono sempre più confusi. Quale la conclusione? Molto caos per un certo tempo, molto dolore, molto frastuono cinematografico. Ma poi pian piano il groviglio si va dipanando: emergono gruppi isolati con aspetti diversi e sempre si alternano le forze dei savi e le forze dei pazzi, finché poco alla volta, in singoli episodi, risulta uno strano fenomeno. Alcuni savi che impazziscono furiosamente, alcuni pazzi che rinsaviscono: il pericolo non è per quella grande massa che oscilla sempre tra saggezza e pazzia, il pericolo è per le forti nature, le nature compatte. Per un momento si trema: sembra che i savi che impazziscono siano in maggioranza, ma poi succede un gran movimento: la grande massa, quella degli uomini metà savi e metà pazzi, inorridisce di fronte allo spettacolo di tanti pazzi veri che le si fanno contro. Adesso che l’ha visto moltiplicato, l’ha conosciuto bene il volto della pazzia: sorge allora dal suo stesso seno una massa di creature nuove, compatte e sicure, libere dai detriti della pazzia, purificate, e sono esse che muovono all’attacco per sgominare il mostruoso esercito, che già stava per cantare vittoria.

[per motivi di capienza del campo, la trascrizione prosegue nel campo Allegati]
Descrizione estrinseca
Block notes 18x12 cm.
Allegati
[segue dal campo Contenuto]
3 febbraio
È stata una giornata penosa quella di ieri, ossessionata dallo spettro dell’agonia di Singapore. Mamma ne era talmente afflitta che non faceva che parlare ed io, fingendo di non darle importanza, in realtà ne sentivo una pena intima ed assillante. Le hanno distrutto il bacino d’approdo quegli infernali rettili gialli e la stazione radio non funziona più. Tutte le Indie Olandesi saranno minacciate dalla caduta di Singapore ed anche l’Australia. E intanto gli americani sembrano pietrificati dallo stupore e i Russi non intervengono o non possono intervenire. Come al solito, il peso più opprimente della guerra è sempre sulle esili spalle dell’Inghilterra, che lo sostiene in uno spasimo disperato di resistenza. Ma tutto questo non può che logorarla e ormai, temo, inutilmente. Ella sanguina abbondantemente da più parti e non le si concede un attimo di respiro. Non può resistere a lungo. Con la primavera comincerà il grande attacco totale contro la Russia. Hitler sta mobilitando l’Europa intera: ha cambiato il governo boemo per annettere il protettorato, spinge Ungheria e Romania ad una partecipazione sempre crescente, ha mandato Goering a Roma per strappare all’Italia il fiore della sua gioventù: e i richiami fioccano da tutte le parti, seguiti da partenze quasi immediate. Quando la Russia sarà liquidata non vi sarà più speranza per l’impero inglese stritolato tra la morsa tedesca e quella giapponese. Resterà il compito di difendere l’isola; sarà una grande epopea di eroismo, ma forse senza speranza. E allora tutta l’Europa sfinita rimarrà inesorabilmente aggiogata al trionfo germanico, senza spasimi di rivolta, senza speranza di risurrezione.
Questi pensieri assillano in queste dolorose giornate, anche se fra essi fa capolino una piccola interrogazione, che ancora vuole illudersi: “Non sarà anche questa una passeggera ondata di pessimismo e di abbattimento?” Chissà? E si palpita, ansiosi dell’imprevisto.
Ma ci si addormenta malinconici, leggendo quegli affascinanti, ma deprimenti “Viaggi di Gulliver”. Questi irlandesi come sono maligni con la loro intelligenza demolitrice! Se ne stanno lì a sogghignare criticando: ma perché allora non intervengono a riformare, non provano a fare meglio? Ma la verità è che sono troppo affascinati dall’abilità avventurosa degli abitanti dell’altra sponda per ardire veramente di disorganizzarla. E sono invidiosi, ecco tutto. E intanto, senza accorgersene, rivelano come tutto ciò che essi hanno di migliore, di più vitale, risulta dagli influssi che, malgrado la loro stessa volontà, hanno ricevuto dagli anglosassoni: questi hanno reso acido o frizzante il loro umorismo, lieve e penetrante la loro intelligenza, lucente di fantasia il loro spirito d’avventura.
Così stanotte, quando mi sono addormentata dopo aver bisticciato con quell’orso dispettoso di Gionata Swift, ho fatto stranissimi sogni:
Prima mi sentivo molto afflitta e accorata, mentre andavo girando per un mondo oscuro, che poi era il mio atlante, in cerca dell’Inghilterra e non riuscivo a trovarla. Poi mi trovavo improvvisamente in carcere, dove mi avevano rinchiuso i fascisti; ma io mi sentivo molto tranquilla, perché sapevo benissimo che, quando lo avessi voluto, avrei facilmente potuto volar via dalla piccola finestrella della prigione (nei sogni io volo sempre benissimo e con grande facilità). Tutto ad un tratto mi sono trovata in Libia, ma non era vero che gli inglesi erano stati respinti, anzi l’avevano ormai occupata per intero e tutti vivevano pacifici e tranquilli. Là c’era la mia casa d’Orvieto, con la famiglia del maresciallo e Marcella. Io venivo tutta affannata dopo una lunga corsa in bicicletta: era d’estate: mi cambiavo per il pranzo e Marcella, tutta emozionata, veniva ad avvertirmi che alla nostra tavola si trovavano alcuni ufficiali inglesi, che erano nostri ospiti. Marcella immaginava che questa notizia mi avrebbe fatto molto piacere. Ma io non riuscivo a vestirmi perché tutti i vestiti mi erano diventati strettissimi ed io, chiusa lì dentro, non potevo neanche respirare (evidentemente mi ero avvolta troppo dentro le coperte). Poi finalmente scendevo e mi sedevo a tavola tutta sorridente. Là trovavo una schiera di ragazzoni allegri e giovanissimi, che mi facevano tante feste e con cui parlavo con molta facilità: poco alla volta mi accorsi che parlavano italiano, che essi erano italiani, ma inglesi allo stesso tempo, come se fra le due nazionalità non vi fosse stato non soltanto contrasto, ma nemmeno differenza: riconoscevo tra loro alcuni dei miei giovani amici, i quali mi spiegavano, con aria disinvolta e tranquilla che non c’era nulla di insolito in questo fatto, ma che in realtà era sempre stato così: tutto il resto era stato un’idea strana, come un sogno (ed io credevo davvero nel sogno di aver sognato “prima” ed ero tutta contenta di essermi svegliata in tempo). E così cominciavamo a mangiare allegramente, come fosse la cosa più naturale del mondo che Orvieto si trovasse in Libia, che io con la sciatica avessi fatto una lunga gita in bicicletta, che l’inverno fosse l’estate, che i soldati inglesi fossero in realtà miei giovani amici italiani.
Ma poi improvvisamente la scena cambiò. Io andavo a scuola e avevo addosso la divisa, perché c’erano i Ludi Iuveniles. Come sempre quando sono in divisa, camminavo malamente, senza provare il gusto del movimento, tutta rattrappita in me, perché mi vergognavo: zoppicavo anche, ché mi faceva male la gamba. Giunta alla porta di scuola vedevo tanta gente e tutti i ragazzi allegri a chiedersi perché si andava all’aperto: io non capivo perché e me ne tornavo indietro borbottando per la stupida pagliacciata dei Ludi, che nessuno può soffrire, né i ragazzi, né i professori, né tanto meno le autorità politiche, che si annoiano a morte e non ne capiscono nulla: ma si deve fare tutti gli anni perché lo stato fascista vuol dimostrare di fomentare la cultura nelle giovani generazioni. E pensando alle sciocchezze che avrei dovuto leggere, sentivo più male alla gamba /decisamente stanotte la mia sciatica doveva essere più maligna che mai). Professori ed alunni si riunirono in un grande prato all’aperto ed io improvvisamente diventai un ragazzetto qualunque che aveva fatto il suo tema e aspettava il giudizio dei professori. Ma nello stesso tempo ero anche un vecchio professore simpatico e arguto (quello stesso che G. mi aveva detto l’altra sera essere stato mandato via dalla Gil, senza alcun processo, dietro l’accusa fatta da alcuni alunni di una classe, che non era la sua, perché si era manifestato simpatizzante dell’Inghilterra). Dunque io ero un ragazzetto qualunque e anche un vecchio professore antifascista. A volte ero me stessa, che guardavo la scena e godevo di una doppia personalità. Avevo, come ragazzetto, svolto il mio tema con molta abilità, facendo trasparire attraverso le righe i miei sentimenti veri. Ed ero molto soddisfatto del tiro birbone giocato ai noiosissimi Ludi, ma anche molto tranquillo perché ero sicuro che il mio tema non sarebbe stato prescelto. Me ne stavo rannicchiato in un angolo a giocherellare da solo, al tepore delicato di un bel solicino affettuoso. Ma intanto una sorda lotta si agitava tra il vecchio professore e una vecchia professoressa: questa era zelante e presuntuosa, ostentando un giovanile ardore patriottico: e voleva leggere l’ampio e verboso componimento di una sua allieva, ben adorno di ultra-ortodosse adulazioni. Ma il vecchio professore aveva scovato, chissà come, il componimento dell’oscuro ragazzetto rannicchiato al sole e voleva leggerlo ad alta voce, perché era grazioso e anche perché voleva fare dispetto alla brava persona perbene e soprattutto alla vecchia professoressa presuntuosa. Ma questa sommerse ogni obiezione e fece solennemente declamare il bel componimento, il quale fu anzi recitato, poiché aveva l’originale pregio di esser composto a forma di dialogo. Sento ancora il disgusto del povero ragazzetto, che ad un tratto non so perché non riuscì più a ritrovare il bel tepore del suo angolino di sole. Ma ben presto il vecchio professore caparbio riprese la sua rivincita ed, estratto il compito del ragazzino, cominciò a leggerlo in voce pacata, ma subdolamente ironica. In quel momento comparvero sfilando sopra il bel [prato] alcuni uomini altissimi ed eleganti, perfettamente contegnosi: avanti a tutti un vecchio signore col viso lungo e profondamente solcato (dovevo averlo visto quel viso in uno dei tanti film di marca anglosassone). Il ragazzetto ebbe un sussulto, si precipitò sul vecchio professore per strappargli di mano il suo componimento e gridava “Non davanti a loro! Non è delicatezza far loro ascoltare i nostri temi patriottici”.
Li avevo riconosciuti: era un drappello di prigionieri inglesi. Ma il vecchio signore si avvicinava, prendeva cortesemente il mio componimento e cominciava a leggerlo con grazia così squisita, che io mi accorgevo come si rivelassero piacevolmente i veri sentimenti con cui era stato composto il mio piccolo lavoro. Poi improvvisamente io mi trovavo chiusa in una grande automobile, piccola ragazzetta felice, con un grande signore inglese che mi parlava di tante cose note e mi capiva magnificamente e la macchina correva rapidissima per portarmi lontano ed io non chiedevo dove si andasse.
Mi sono svegliata malvolentieri. Avrei preferito continuare il mio sogno. È sciocco davvero abbandonarsi a tali fantasie in mezzo a così spasimante tragedia, più sciocco ancora trascriverle nel mio libretto. Eppure ho dovuto farlo. Ho pensato che domani non potremo più neanche sognare, domani, quando tutto sarà la realtà, suggellata dalla brutale giustificazione del successo.
Ma chi ci restituirà allora questa grande forma di liberazione nel sogno? Chi potrà compiere più il miracolo di riportare i fanciulli, capaci di errare nel sonno la realizzazione di quelle [poetiche amorose] di cui sono privi nella vita comune? Non la Germania con il suo fanatismo scostante, non il Giappone con la sua subdola e misteriosa brutalità e nemmeno la piccola Italia, la quale, sbigottita, si preoccuperà allora di nascondere anche a se stessa la misteriosa inquietudine della sua trepida sensibilità.


Orvieto 20 febbraio
Non riesco ancora a superare la paura di quella precipitata catastrofe di Singapore. Non l’aspettavo così improvvisa e totale. Non credevo che avrebbero inalberato bandiera bianca. È stata come una lacerazione improvvisa di tanti antichi legami. Non so che significato abbia dal punto di vista militare, né per quali ragioni sia stata inevitabile. Soltanto mi sembra di non poterlo sopportare. E non soltanto per amore verso l’Inghilterra: mi sembra una resa a discrezione di tutta l’Europa, di tutta la razza bianca di fronte a quella raffinata barbarie dell’Estremo Oriente. E tutto sembra precipitare laggiù irresistibilmente, senza più freno. Non si capisce neppure se l’Australia riuscirà a sottrarsi alla [sommersione]. Se anch’essa dovrà precipitare, noi dovremo assistere ad una novità mostruosa. L’impronta e il prestigio della nostra civiltà europea ed occidentale sarà cancellata in tutto quel popoloso emisfero e, è chiaro, la vecchia madre che ci ha generati e spinti verso l’assillo dell’incivilimento, rimarrà esterrefatta e dolente, priva dei figli suoi più nobili e più raffinati. Ma i gialli continueranno a prolificare, subdoli, invadenti, avidi, velenosi: minuscoli [...] inesauribili eserciti di insetti ripugnanti, perfettamente organizzati da un’istintiva precisione di individuale annichilimento: e la loro opera di dissoluzione sarà totale e inesauribile. La nostra sostanza sarà il nutrimento per la loro esistenza parassitaria. È spaventosa quella loro meticolosa imitazione dell’Occidente rivolta con precisione implacabile alla distruzione dell’Occidente. E noi, nella nostra assurda aberrazione, abbiamo alimentato, fomentato, stimolato questa mostruosità. E adesso eleviamo il latrato dell’applauso dell’adulazione. Noi, gli europei razzisti, che abbiamo gettato lontano dalle nostre vicinanze l’impurità ebraica, per non esserne contaminati, adesso strisciamo ai piedi di quei minuscoli giapponesi, leccandone le mani vittoriose! Sento il ribrezzo di un orrore nuovo e raccapricciante, il bruciore di un’umiliazione non mai provata. E dire che da anni ormai proviamo la vergogna di questa nostra bastarda parentela fascista! Ma sembra che non vi sia fondo nell’abisso della degradazione. Non soltanto io provo questa sensazione irresistibile di smarrimento. Anche le persone che mi sono vicine, quelle stesse con cui altre volte ho lottato con tanto furiosa violenza, ora mi sembrano disorientate e deluse, ma soprattutto disgustate.
B., che prima esaltava come mistico dovere cristiano la collaborazione che avrebbe dovuto purificare, col lavacro del cattolicesimo, tutta la grossolana incompetenza fascista, ora tace e sembra perplessa, mentre accuratamente cerca di evitare l’argomento scottante. P., la quale con ingenuità piuttosto sentimentale, aveva tentato di illudersi in un bel sogno parecchio convenzionale, ora, urtata da mille inequivocabili delusioni, si lamenta di sentirsi così improvvisamente disorientata e come priva di ogni contenuto. Mi diceva sottovoce di suo fratello, che dibatte con i suoi amici lo stesso problema e che tenacemente si attacca al cattolicesimo per risolvere e superare l’equivoco. C. poi, la comandante della Gil, stamattina mi ha stupito col suo sconfortato scoraggiamento. Vede la gioventù, che avrebbe voluto [rieducare] (a cui ha dedicato tutta la sua attività accettando a tal scopo anche cariche politiche che ripugnavano alla sua modestia) grossolana e superficiale, indifferente e cinica, avida e svigorita! Mi ha fatto pena e pure non l’ho risparmiata: altre volte mi aveva chiesto la mia collaborazione e io le dissi chiaramente che non potevo offrirgliela, perché non volevo aiutare un regime che disprezzavo. Avrebbe potuto rovinarmi, e invece mi rispettò. E adesso proprio a me viene confidando quel senso opprimente di smarrimento che la tormenta anche nelle notti insonni. “Vi sono due speci di persone, diceva, quelle che, come noi, cercano di costruire e quelle che tentano di demolire”. “Vuol dire che c’è qualcosa che deve essere demolito” ho risposto duramente, alla presenza della piccola […], la quale non sembrava disapprovare, ma che a questo punto si è silenziosamente allontanata. Siamo rimaste sole e abbiamo continuato a parlare: lei sembrava convinta di essere immune da ogni responsabilità, di aver sempre agito con moralità e con giustizia, di aver lavorato con pure intenzioni. Le ho duramente risposto come tutti noi siamo stati gravemente colpevoli contro lo spirito, poiché abbiamo confuso idee e sentimenti, innalzando chimere e fantasmi al livello di grandi ideali: ciò nel migliore dei casi, quando abbiamo creduto di essere onesti; spessissimo opportunismo, avidità ed ambizione si sono camuffati col pennacchio dell’idealismo. Sempre abbiamo lasciato che fossero nostri padroni la falsità e l’ambiguità. “Finché non separeremo dal [resto] gli ideali, che sappiamo incontaminati, non potremo pretendere di educare alla fede e all’eroismo i ragazzi, che ci uscirono dalle mani cinici, sfiduciati e opportunisti, proprio come siamo noi”. Non ha avuto la forza di oppormi nessuna obiezione.
Ma che fede è dunque la loro? Intanto i ragazzi mi sembrano di nuovo più affascinanti e ho la sensazione di amarli con più tenerezza e sempre meglio mi sembra di comprenderli. Essi mi sembrano più vecchi di noi e più gravi, quando mi guardano con quei grandi occhi pensosi e fin troppo consapevoli, quegli occhi onesti che non vogliono più essere ingannati. Allora mi metto a fare un lavoro paziente di ricostruzione, mi metto a spiegar loro parola per parola quelle opere eloquentissime dei nostri grandi, le quali sono impregnate di tanto vivo dolore. E questo antico dolore di nobili spiriti italiani mi sembra tuttavia così attuale, che basta da solo a soddisfare tutte le nostre domande di adesso. E i ragazzi divengono curiosi e domandano continuamente con tante buffe interrogazioni. Mi sento io sempre interrogata, invece di loro, e ho tanta paura che un giorno o l’altro finiscano per bocciarmi. Sento sempre affiorare la domanda definitiva, chissà se la pronunceranno mai apertamente? Chissà come risponderò?
Riuscirò mai a riscattare quella mia vecchia vigliaccheria? L’ho scoperta l’altra sera, mentre affannosamente parlavano insieme con la mia nuova amica M., la quale ha finalmente col suo libero spirito malizioso, neutralizzando questa stagnante atmosfera di immobilità. Mi ha rimproverato con molta chiarezza perché non ebbi il coraggio allora di spedire quella mia famosa lettera al papa. Alla mia obbiezione, che tanto ciò non sarebbe servito a niente, mi ha risposto: “Non importa, avresti così potuto combattere un poco anche tu”. E quando io ho osservato che mi ero scoraggiata perché non volevo aggiungere altre firme, mentre spedirla con la mia solamente avrebbe potuto sembrare l’idea bislacca di una ragazzetta isterica, ella mi ha risposto precisa: “non credi sia stata frutto di isterismo quella tua paura di allora?” E forse era vero: tutti siamo stati colpevoli in quel tempo ormai tanto lontano di una vigliaccheria individuale, di un irresistibile e quasi contagioso smarrimento isterico di paura. E ne siamo stati puniti. Riusciremo mai a riscattarci?

22 aprile, Orvieto
Queste serate con M. sono veramente molto eccitanti e riaccendono la fiducia. La sua precisione diritta mi riconforta di tutta la molle banalità che mi ha circondata e riscontriamo nel passato una tale identità di ideali e di sofferenze, da rinsaldare la sicurezza delle nostre intuizioni. Riandiamo ricostruendo quasi meticolosamente quelle terribili giornate che precedettero e seguirono il crollo della Francia e non ci stupiamo nel constatare l’assolta uguaglianza dei palpiti, della rivolta, delle illusioni, delle proteste, della umiliazione di allora. Non ci conoscevamo eppure eravamo uniti, avevamo tutti la stessa passione. Questo riconferma non soltanto la verità della nostra sofferenza, ma soprattutto la sua giustizia. M. non è religiosa, o almeno non si dichiara praticante, eppure mi confidava che lei, sua madre, suo fratello, nei momenti in cui con assurda speranza ci si illudeva che la Francia ancora potesse reggere, andarono in chiesa a pregare: ricercavano il miracolo. Così io in quella giornata convulsa che seguì la nostra abominevole dichiarazione di guerra mi precipitai a confessarmi senza riuscire ad esprimere la colpa misteriosa di cui mi sentivo oscuramente responsabile. E facciamo assurdi progetti per quando potremo agire e riusciamo a suggestionarci che questo sarà possibile, anzi che è prossimo e ci impegniamo a tenerci preparati. Tanto può ancora in noi la capacità di illusione! Eppure chissà: forse non sarà illusione: c’è attorno a noi una saturazione generale ed una crescente stanchezza di questa nostra affannosa inerzia. Affiora la coscienza della lunga passività spirituale e, per quanto abbiamo sofferto e combattuto, tuttavia si ha chiara la percezione che questa […] fino ad ora non è stata una vera lotta, ma piuttosto un’automatica partecipazione ad una contesa che ci resta estranea ed inspiegabile, che non ha fascino. Ed i pigri e gli inetti sono seccati di questo inutile condannare e mormorano: “Purché finisca in qualsiasi modo!” e gli opportunisti astuti ondeggiano, non sapendo più quale attitudine assumere: se tenersi pronti per il prossimo voltafaccia o se ancora puntare sul vecchio cavallo conservatore. Vi è una folla di rassegnati, che aspetta la soluzione automatica degli eventi e giudica stolta presunzione il tentativo di iniziative particolari. Vi è una gioventù grezza ed informe che si affaccia brutale alla ribalta della storia, narcotizzata dalla assillante propaganda fascista; ma non ha impulsi proprii, né dirittura di percezione: perciò potrebbe, io penso, essere rapidamente investita e trainata da una più abile propaganda. Poi c’è la grossa massa popolare, che sente esasperati i suoi bisogni materiali e che rumoreggia minacciosa: ha finalmente identificato il colpevole e lo addita direttamente e lo circuisce con inesorabile determinazione: non sembra disposta a mollare la sua protesta, almeno che non l’afferri improvvisamente quella spaventosa paralisi di rassegnazione. In mezzo a questo fermento la propaganda clericale crea un grande scompiglio: sembra in apparenza persuadere all’accettazione e alla rinuncia di ogni iniziativa individuale, ma poi solleva svariati problemi di umanità e di dirittura, di ottimismo nel progresso morale, di superamento spirituale, che stranamente contrastano con l’abulica monotonia dell’imposizione totalitaria. Germi oscuri di disagio morale serpeggiano nelle coscienze e le agitano di un sotterraneo, ma sempre crescente, flusso di auto-malcontento: come l’affiorare di un profondo senso di responsabilità vecchie e nuove, le quali devono essere riscattate. E noi fremiamo di fronte a tutto questo scompiglio con la nostra vitalità ancora insoddisfatta, con la nostra energia sempre soffocata, con la nostra fede insensata nel diritto, che malgrado tutto sentiamo di possedere, all’affermazione della nostra realtà spirituale. Prenderemo finalmente l’iniziativa di quell’azione che non abbiamo mai saputo promuovere? Avremo finalmente il coraggio di parlar chiaro ed a voce alta?
Ricordo la magnifica conferenza pronunciata da M. di fronte a tutto lo stato maggiore al collegio della Gil, in cui essa ha detto tutta la verità con una chiarezza inequivocabile; ma non è stata capita, forse anzi non è stata ascoltata neppure. Eppure le bambine hanno intuito in quelle parole una bellezza misteriosa, che non è stata comprensione, ma quasi ammirazione per un’armonia, a cui da troppo tempo erano disavverse. E a volte si scoprono durante le lezioni guizzi improvvisi di nuove curiosità, affermazioni ardite e improvvise che fanno intuire un più intimo fermento di vitalità. E allora riprendiamo a sperare.
Ma tutto ciò avviene in questo piccolo centimetro quadrato di mondo in cui siamo costretti a vivere. Che cosa si agita nel complesso dell’organismo nazionale, che sfugge al nostro controllo, che si sottrae al nostro contatto? Forse però esso è molto simile a questo ristretto raggio della nostra angusta visuale, perché l’oppressione che viene dall’alto si esplica con quella intensità e cecità su tutte le particelle del complesso organismo: quindi anche là si debbono suscitare reazioni molto simili alla nostra. E allora vuol dire che se noi riusciamo a scuotere il nostro piccolo mondo, tutto il rimanente si scuoterà insieme a noi. Ma la resistenza dell’inerzia è spaventosamente deprimente: tutto riesce a soffocare; anche il nostro fermento è capace di catalogare e così forse finirà col neutralizzarlo. A volte sento di odiarle queste cosiddette moralità dell’ordine: sono avide e torpide, opprimenti ed opache: sono come vecchie fiaccole ammuffite, che bruciano con fuoco fiacco e fumoso privo di bagliori, ma soprattutto incapace di generare calore.


29 giugno Roma
Questi inglesi sono proprio incomprensibili! I loro piani debbono esser misteriosi, la loro sensibilità assurda o corazzata, oppure la loro stanchezza invincibile e logorante. Dopo la resa improvvisa di Tobruk mi sono stupita, ma ho atteso; vedendo gli avamposti della difesa egiziana, Sollum ed Halfaya cedere senza resistenza ho sentito il respiro sospeso per l’oppressione, ma sono ancora rimasta indecisa. Al bollettino di ieri (Marsa Matruh circondata, la via costiera raggiunta) ho palpitato di paura. Ma stamattina, alla resa del presidio di Marsa Matruh, sono restata esterrefatta. Ma, accidenti!, la via di Alessandria è ormai sgombra, aperta ai carri armati germanici la bella autostrada costiera! Ma dunque gli inglesi non intendono difendere l’Egitto? E perché? Sono così indifferenti al possesso del Mediterraneo, come gran signori che possono giocarsi tranquillamente una piccola proprietà del loro grande patrimonio? In tal caso sarebbero molto sciocchi e sventati: non vedono forse che il M è la chiave all’accesso di tre continenti? Non sentono che il loro già florido patrimonio comincia ad essere consumato in gran parte da vampiri, avvoltoi ed usurai. E non hanno il diritto di lasciarci.


24 ottobre
Forse soltanto io amo l’Italia ora. Nessuno è vicino al suo cuore, povera patria mia. E questa è l’alba dell’espiazione, di una spaventosa espiazione, a cui ella va incontro, quasi indifferente, consapevole di meritarla. Tutti i suoi figli parlano male di lei, anzi tutti disprezzano se stessi: si sentono oscuramente responsabili di una grande colpa, ma non sanno quale essa sia. Perciò sono tutti in contraddizione: solo in una cosa si trovano concordi: che bisogna pagare e a caro prezzo. E poi sono tutti così sfiduciati ed avviliti, né sperano in qualche cosa di buono: poiché sentono di non meritarlo. E questo è così penoso, così stranamente generoso da parte loro, che mi fa tanto soffrire e mi riempie di tenerezza. Più male mi fa questa loro disperazione, che lo strazio inflitto alle nostre città dalle bombe anglosassoni. Eppure sento rinascere in me un profondo, quasi timido orgoglio per la mia gente. Malgrado tutto, gli italiani non hanno perduto quel loro intimo, acuto senso della giustizia che ha quando questa austera signora si rivolge contro di loro, essi hanno il coraggio di guardarla in faccia. E guardarla in faccia questa volta vuol dire arrossire per la vergogna e tremare per il castigo. Tremare? Non so. Non mi sembrano pavidi questi italiani che mi circondano, ma piuttosto mi sembrano disorientati, avrebbero ancora in mano[…] e scintillante, la lama del loro coraggio, ma non sanno come adoperarla. E d’altra parte affiora la ripugnanza di capovolgere una situazione, di cui ci si sente fin troppo responsabili. E in questa incertezza, in questo non sapere come uscire da un ginepraio così complicato, consiste la nostra tragedia; in questa paralisi si annuncia la catastrofe. Ma catastrofe di chi? dell’Italia intera? Dio non lo voglia! Sarà comunque catastrofe per il fascismo. Questo male detto parassita continua nella sua opera di corrosione senza la minima pietà e non accenna a saziarsi. Invece negli spasimi della sua agonia, si agita più dissennata e più bramosa che mai. E l’Italia sbarra gli occhi, tutta impallidita. Come una fanciulla sedotta, a cui sia stato imposto di sposare il suo seduttore. Dissennata aberrazione di moralità: legata all’uomo che intimamente disprezza, paralizzata dal suo stesso peccato, sente più la vergogna che l’ansia di riscattarsi e guarda i figlioli, che comunque le sono nati, con un misto di pietà e di disgusto. Eppure ogni maternità, anche se colpevole, può essere sacra, purché abbia il coraggio di purificarsi del suo passato. Avrà l'Italia la forza di imporre ai propri figlioli la fiducia in se stessi, il rispetto verso di lei? È quello che si vedrà in questo preludio di grandi avvenimenti. Ma prima ella deve avere la forza di liberarsi dal parassita che la riduce esangue e sbigottita: soltanto allora noi, i figli suoi più amorosi e più sventurati, potremo accorrere in suo aiuto per salvarla dalla rovina. Sono contenta di esser riuscita a liberarmi dalle maglie della prigione fascista, che minacciavano di soffocarmi. In questo angolo tranquillo e raffinato, a contatto con le opere pazienti  della cultura e della storia, riacquisterò l’equilibrio e l’energia di cui avremo bisogno domani per la ricostruzione. Perché, al solito, io vado contro corrente: io credo nella ricostruzione, mentre tutti si aspettano la disgregazione ed il caos.


9 novembre
Tutto sembra precipitare, specialmente nelle coscienze. Gli italiani osservano con una lucidezza spaventosa lo svilupparsi della situazione. La realtà non sfugge alla loro intelligenza inesorabile. Essi hanno capito. Forse  hanno capito anche troppo. La ritirata in Egitto non è un ripiegamento: è una fuga. Lo sbarco anglo-americano in Marocco ed Algeria non è un tentativo: è una conclusione. La sensibilità italiana è spasmodica in certi momenti e forse divinatrice. Io non so: lasciata a me stessa, non prenderei le cose tanto nel tragico: in realtà non è ancora successo nulla di irreparabile. Ma l’orgasmo generale mi spaventa. E la propaganda anglosassone, che filtra attraverso tutte le fessure, getta olio sul fuoco. Gli anglosassoni sono astuti e soprattutto sono tempisti. Essi hanno fiutato il momento della loro rivincita e son decisi a non lasciarsi sfuggire l’occasione. Sanno inoltre che l’organismo più sensibile e delicato in questo momento è l’Italia e su di lei avventano l’azione decisiva, intanto che i Russi continuano a neutralizzare la Germania. Del resto gli anglosassoni sono gente di parola. Avevano promesso alla Russia il secondo fronte prima dalla fine dell’anno e glielo hanno preparato. Comunque vadano le cose, è sempre per l’estate una vasta dispersione di forze e la Russia potrà respirare. Intanto l’inverno è in agguato, ma non sembra tanto crudo e maligno per ora, come quello dell’anno passato. Forse il buon Dio comincia ad avere compassione di noi, e ci usa misericordia. Ma noi ci troviamo di fronte ad una svolta, che sarà decisiva. Noi dovremmo ormai cambiare nemico. Anche se ci vediamo costretti a vincere la ripugnanza inevitabile dell’apparente tradimento. Dovremmo scacciare il fascismo e rivolgere la nostra lotta contro la Germania. Queste, lo so, sono gravi parole. Parole che includono uno spaventoso coraggio. Eppure è ancora il meglio che ci resta da fare. Altrimenti guai a noi! Non avremmo più il coraggio di liberarci da questo complesso di inferiorità che comincia a dominarci. Quando si è precipitati giù nella strada dell’abiezione morale, non bisogna aver paura di scendere gli ultimi scalini; solo quando la degradazione è compiuta in pieno, potrà cominciare il riscatto. Ma peggio è fare le cose a metà! Noi abbiamo ancora molta energia inespressa, ma se la teniamo ancora sotto compressione, minacciamo di paralizzarle. E poi la lotta contro la Germania ci presenterebbe a così gravi pericoli, da offrirci la possibilità di una riabilitazione. Ma non credo che avremo il coraggio di affrontare questa decisione suprema . Troppi pregiudizi sono ancora radicati in noi, troppa confusione è nelle nostre anime. Confusione e forse anche disperazione. Stamattina mi sono battuta con la mia solita veemenza per difendere l’onore del mio popolo. Contemporaneamente accusato da un fascista ingenuo e un po’ cieco e da un antifascista troppo intelligente, anzi forse troppo intellettuale. Ambedue si trovavano d’accordo nell’accusare spietatamente il popolo italiano delle più disparate responsabilità, delle colpe più contradditorie. Ed io l’ho difeso con tutta la passione furibonda del mio vecchio e rinnovato patriottismo. E il fascista ha impallidito di sbigottimento e l’antifascista mi ha bisbigliato un po’ disgustata: “Sai, in realtà, io non sono antifascista: sono piuttosto anti italiana.” E allora, mi è balenato ad un tratto un lampo di verità ed ho visto che cosa ci rimane da fare: riscaldare il sentimento di nazionalità negli ipercritici troppo intelligenti, spalancare spietatamente gli occhi agli ingenui un po’ deficienti. Questa è la tragedia dell’Italia dopo 20 anni di fascismo: una frattura profonda tra cervello e cuore, tra umanità ed intelligenza politica. Bisognerebbe ristabilire il contatto tra le due forze di così diversa natura ed allora il dualismo potrebbe essere risolto: forse ne scaturirebbe la scintilla di una nuova e meravigliosa vitalità. Del resto stamattina, dopo la mia violenta esplosione, l’antifascista è tornata indietro per confortare il povero fascista rimasto solo e un po’ sbigottito. Probabilmente avranno parlato male di me e questo li avrà aiutati ad intendersi. Dio voglia che questo episodio possa esser simbolico! Io intanto ho perseguito la mia strada con una fanciulla tanto graziosa, che è figlia di un italiano e di una inglese. Lei mi ha confidato affettuosamente: “Mi ha fatto tanto bene sentirti parlare così. Anch’io vorrei essere esplicita e coraggiosa, ma mi si potrebbe sempre dire che io parlo come una straniera!” Strano paradosso! A parlar bene del proprio paese in Italia adesso si corre il rischio di essere presi per stranieri!


3 dicembre
Quell’uomo non ha più presa, specialmente sulle masse. Siamo andati ad ascoltare quel suo sconnesso e grossolano interminabile discorso in un piccolo bar di Trastevere. I popolani apparivano disinteressati e diffidenti; molti non hanno aspettato che finisse, i più erano delusi, come alla rivelazione della misera vacuità di un bel giocattolo che li avesse a lungo affascinati. Anche le sue volgarità personali hanno fatto presa effimera sulla grassa volgarità popolare. Lui ha esagerato sulla questione sua personale in un momento in cui il popolo ha troppo gravi dolori propri per potersi interessare alla polemica tra il suo Capo plebeo e il nobile Capo del popolo nemico. Mussolini non ha capito questa volta lo stato d’animo della folla: non ha capito, né poteva capirlo nella sua grossolana vacuità, che un popolo immerso nella più sfibrante sofferenza quotidiana, angustiato da ristrettezze opprimenti, terrificato dallo spettro di un avvenire disastroso, ha bisogno di parole penetranti e comprensive, richiede che ci si commuova, che ci si intenerisca per il suo male, che si cerchi di idealizzare, di sublimare la sua passione, e non che si esasperi la sua asprezza, che si acuisca il suo risentimento, non che si ecciti il suo odio.
Il popolo è fanciullo: Mussolini lo ha dimenticato. E un fanciullo che soffre vuol soprattutto essere consolato. Ma gli egoisti e i vanitosi non sanno consolare, riescono tutto al più a fingere istrionicamente la commozione, come egli ha fatto con le sue lunghe pause artificiose prima di parlare dello strazio delle città bombardate; ma l’artificio in questi casi si smaschera facilmente, non raggiunge l’effetto che si era prefisso. Del resto in realtà a Mussolini non importa affatto la sofferenza del suo popolo: per quanto lo disprezzassi profondamente, la sua insensibilità mi ha ancora stupito.
Non credevo che arrivasse a questo punto di cinismo. Egli sente che sta per cadere e tutti noi vuol trascinare nel gorgo della sua rovina. Perciò sua unica preoccupazione è stata l’eccitazione fredda e calcolata dell’odio contro gli inglesi. Forse egli li odia davvero per l’umiliazione che gli hanno inflitto, forse segretamente vorrebbe ancora trattare con loro, ma sa che essi lo respingerebbero. Credo che egli intravede fra un dio cieco e collettivo l’unica sua ancora di salvezza e ci si aggrappa disperatamente. Ma è veramente troppo disperato perché possa tentare il colpo avvedutamente: egli si lascia trascinare dalla sua furia rabbiosa. E badi bene che il colpo potrebbe rivoltarsi contro di lui. È pericoloso eccitare l’odio delle masse in questo momento. Potrebbe rivolgersi contro il vero responsabile.

15 dicembre
Questi antifascisti mi faranno impazzire! Ne ho incontrati parecchi quest’anno, vecchi e nuovi. Dei nuovi non è il caso di parlare: essi pullulano numerosi sul tronco putrescente del fascismo suggendo i detriti del suo nutrimento, pronti ad attecchire, da bravi parassiti, sugli organismi nuovi che si costituiranno. Ma speriamo che una bella fiammata li distrugga insieme al marciume che li ha fatti schizzare fuori. Ma i vecchi antifascisti, quelli sì mi interessano, poiché sono il grande problema che va risolto prima di intraprendere il nuovo cammino. Essi sono i responsabili della paralisi fascista, perché furono abbastanza intelligenti per comprenderne la natura, ma non abbastanza forti per difendere l’organismo nazionale. Ma essi sono anche l’unico nostro riscatto, per la loro protesta costante, tenace, a volte eroica, essi sono ancora forse l’unica nostra speranza. Però dovrebbero rinnovarsi, dovrebbero essere vivi, dovrebbero avere il coraggio di affrontare la realtà e di rinunciare alle loro squisite teorie. Il fascismo ha compiuto nei loro riguardi la più perfida delle vendette: li ha neutralizzati, affogandoli nella loro stessa intelligenza, e in tal modo ha impedito loro l’azione. Sfruttando e falsando con la retorica nazionalistica e pseudo-religiosa gli ideali più puri, li ha fossilizzati nell’ipercritica, li ha disgustati di ogni fiducia. E quando noi, che malgrado tutto, crediamo ancora nella vitalità di noi stessi, cerchiamo di risvegliare in loro una scintilla di collaborazione, li vediamo sorridere metà pietosi, metà indulgenti, forse un poco divertiti, ma pur tanto disincantati dalle nostre puerili illusioni. E ci credono sciocchi, retorici e forse alquanto goffi e primitivi, perché osiamo credere ancora, malgrado tutto, nella religione, nel bene, nell’eroismo, nella fantasia, nell’entusiasmo, nello spirito di avventura, perché siamo ciechi e testardi, essere ottimisti dell’umanità, perché, a dispetto di tutte le delusioni abbiamo la stolta pretesa di amare ancora la nostra nazione. Essi, che si credono saggi, mi riempiono di tristezza e di pietà, ma anche di un’invincibile e profonda tenerezza. Sono persone tanto oneste ed anche coraggiose, ma è come se si vergognassero della loro probità, delle buone azioni che compiono di nascosto, non dico degli altri (che sarebbe umiltà), ma di nascosto di se stessi, perché risultano in contraddizione con le loro teorie. E questa in fondo è una forma di viltà morale, a cui li riduce l’eccesso della loro intelligenza. Queste forme di autocritica sono, a mio parere, alquanto patologiche e peccano perché mancano di fresca spontaneità, quindi di vita reale. Sono, come essi stessi avvertono, indice di senilità ed è forse questo fenomeno intellettuale che ha commesso la colpa spaventosa di paralizzare la Francia.
Ma ora la Francia è in ripresa almeno esteticamente, pur mantenendo un bollore di litigiosità che è tutt’altro che edificante. Riusciremo noi, pochi sventati testardi fanciulli imbevuti di lucenti illusioni, a scuotere questo torpore antico dai migliori nostri italiani? Non so, a volte mi sento molto scoraggiata, poiché avverto la fragilità delle mie forze di fronte all’imponente grandezza del compito che ci spetterebbe e che, malgrado tutto, mi appare sempre più chiaro e nitido nei suoi contorni, urgente nelle sue necessità. Ma come propagare questa certezza?

Chissà perché in amore è come se io avessi perso il gusto del suo sapore. Ho appena gustato il profumo di questa vivanda prelibata, poi l’ho vista sparire e anche un poco contaminare e allora me ne è rimasta come una nausea sottile. È così per il caffè. È difficile adesso trovarlo e anche quello che si trova non ha più quell’aroma così prelibato. Non so. È forse perché è tutto un po’ deteriorato, appare perché il nostro gusto si è come inquinato? Impossibilitati di fare il confronto e la selezione tra le varie qualità, noi siamo divenuti incapaci da vagliarne l’essenza, così accettiamo lì per lì con ansiosa cupidigia il primo che ci venga offerto, ma poi sempre ne rimaniamo delusi. Non riusciamo più ad afferrare quel piacere insostituibile che altre volte abbiamo provato. Era quello un tempo molto lontano e un po’ mitico. Forse se non fossimo stati viziosi del caffè lo accetteremmo ora comunque fosse e anche lo gradiremmo. Ma noi invece lo gustavamo soltanto perché era una bevanda di profumatissima essenza: era un omaggio che si rendeva ad una cosa squisita; così, come per l’arte e per le belle creature. Ma io in amore sono anche più austeramente esclusiva. Non soltanto i surrogati rifiuto, ma neanche acconsento di assaggiare le qualità inferiori. Forse per me esiste soltanto eternamente quell’unico aroma proibito.

[Foglietti sparsi]
1. In Tunisia la 1a Armata Britannica, avanzando verso NE, ha scacciato il nemico, che ha opposto tenace resistenza, da Medjez-el-Bab (a 30 miglia a SW di Tunisi).
In Russia, i sovietici hanno continuato ad avanzare, catturando altri 12.000 prigionieri.

2. [Witter..] ha occupato stamattina Tolone, ma il suo scopo è stato frustrato. Tutte le navi della flotta francese (la Dunkerque e la Strasbourg, 10 incrociatori, 1 nave porta idrovolanti, 25 cacciatorpediniere e 20 sottomarini) si sono infatti autoaffondate. Sono saltate in aria quando già i tedeschi erano sui moli, e molti comandanti sono morti ai loro posti. Anche l’arsenale e le batterie costiere sono state fatte saltare.
Secondo la […], due sottomarini sono riusciti ad uscire.
In Libia, niente d’importante per terra. Intensa attività dei nostri apparecchi contro Tripoli., Koms e il campo d’atterraggio avamposto nemico dell’”Arco di Marmo”, a W. di El Agheila.
Numerazione
Numero:
5
Reference code
ITA FLLB AA.0001.0002UA.0005UD
Link esterni
Fondazione Lelio Basso \ Memorie al femminile la guerra e la Resistenza nei diari di Ada Alessandrini

Relazioni

Soggetto produttoreAlessandrini, Ada
Fondo di appartenenzaAda Alessandrini
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