Documento
Metadati
- Tipologia
- Diario
- Data
- Data:
- 02/10/1940-12/04/1941
- Consistenza
- Tipologia:
- pagina/e
- Quantità:
- 164
- Contenuto
- Trascrizione del diario manoscritto:
02 ottobre
Stasera finalmente ci siamo sbottonati con i nostri commensali quasi senza riserve.
Erano molti giorni che ci eravamo capiti, ma andavamo cauti, a tentoni, saggiandoci reciprocamente, ma manifestandoci sempre più viva la nostra simpatia. Il signore sardo, con quei suoi occhi azzurri intelligenti e profondi e quei denti bianchissimi scintillanti, si tratteneva a lungo presso la tavola, dopo finito il pranzo e dopo che la sua signora si era ritirata in camera: e si intratteneva a chiacchierare con noi di cose varie, libri e giornalismo, arte ed escursioni, e mi offriva le sigarette: io fumo volentieri quando sento affiorare il noto argomento: devo far svaporare in qualche modo la mia eccitazione. E poco alla volta il discorso si accostava sempre più al punto delicato e i nostri occhi si capivano sempre meglio, mente le nostre labbra sorridevano di sottintesi. Ma stasera abbiamo parlato apertamente, o quasi: ci siamo raccontati una quantità di barzellette graziosissime; ma con una tale voluttà le abbiamo assaporate, come si fuma una “Camel” oppiata di quel profumo dolciastro ed inebbriante [!] ed ho scoperto infatti stasera che le barzellette sono per il popolo italiano proprio come l’oppio, che, assecondando il desiderio, stimola il piacere e lo placa nello stesso tempo.
Ma poi con Ginnico ci siamo rifugiati in camera ed abbiamo preso nota delle barzellette. Abbiamo deciso di farne una raccolta perché non vadano sperse: le butto giù in fretta, senza curarne la forma, per integrare con esse il mio libretto, poi, quando avrò tempo, le sistemerò e darò loro forma letteraria: come le favolette di Fedro. Anche queste non devono andare disperse: sono l’espressione più schietta dell’umorismo italiano contemporaneo, vivace, piccante, acuto, penetrante, libero ed effervescente ancora, che dio lo benedica!
Poi con Ginnico ci siamo intrattenute intimamente e mi ha rivelato tante cose che avevo già intuito sotto l’aspetto della sua equilibrata, saggia prudenza. Più profondamente consapevole delle nostre idee perché più duramente provata, ella sente con ardore e lucidezza la rivolta e il disgusto contro la falsità odierna, ma è più perplessa di me riguardo alla efficacia della nostra resistenza: non si abbandona alla rassegnazione, ma non ha il conforto di questa mia assurda, istintiva possibilità di illudermi o di credere. È strano come ora sia difficile far distinzione tra fede e illusione. Tutti, tutti guardano dubbiosi quando proclamiamo la nostra fede, con quel leggero compatimento benigno od ironico, che vorrebbe persuaderci ad abbandonare queste chimere inutili e fluttuanti. Eppure no, io sento che, malgrado tutte le apparenze, vale la pena di resistere per qualche scopo che pure ci deve essere, anche se ci sfugge la percezione della sua realtà. Da questa nostra resistenza nascerà domani la nuova verità spirituale solida e consistente: noi forse non sappiamo che cosa sia, ma io sono certa che, senza questa nostra ostinazione, tutto finirebbe col dissolversi e coll’esaurirsi. E Giannico scuoteva il capo poco persuasa, eppure mi è parsa desiderosa di potersi convincere. E ci siamo divise malvolentieri stasera, come se avessimo ancora tante cose da dirci, come se ormai ci fosse qualcosa di più vitale che ci legasse. G. mi ha raccontato la storia dolorosa di suo zio condannato al confino per cinque anni, senza colpa né processo, soltanto perché era amico del consolo francese. Era stato un soldato valoroso che aveva combattuto in Francia nella Grande guerra e ne era rimasto invalido; ma i nostri dominatori sono ormai costretti a disconoscere l’eroismo di allora. Ora lavorava con molta finezza e competenza nel delicato lavoro odontotecnico, ma hanno paralizzato la sua attività e spezzato la vita della sua famiglia, alimentando nel cuore di lui e di tutti i suoi un odio più sordo, ma più assillante. Ed è su questo terreno frollo e malfermo che costoro dovrebbero edificare la nuova storia? Non è possibile: finiranno con lo scivolare sullo stesso putridume che avranno disseminato.
Mi torna in mente il colloquio che ho avuto stasera con il vecchio conte cieco e **** : sono entrata nella sua cameretta tanto misera, ma così ricca della sua allucinata spiritualità e così piena di luce. Chissà perché tanta luce per i suoi poveri occhi spenti?
Ripetutamente gli ho parlato di questo nostro disagio accorato per il nostro spirito che vorrebbe sempre più affinarsi e quella massa bruta di umanità che vorrebbe gettarci sempre più violentemente in balia di una sensualità goffa e grossolana. Egli tentava di risolvere ogni cosa con la solita ricetta della reincarnazione, che conduce al progressivo affinamento dei sensi interni e alla percezione della vita cosmica dello spiritico umano. E mi ripeteva le vecchie sue dimostrazioni così poco convincenti, ma tanto calmanti e comode perché così astratte e assurde! E mi faceva piacere lasciargli credere che io avessi il desidero quasi inconfessato di farmi iniziare, perché egli avesse un po’ di conforto a questa sua squallida vecchiaia tanto coraggiosa e sublime, ma oppressa dall’isolamento e spesso straziata dal morso crudele che involontariamente gli [********] il pensiero della morte sempre più vicina. Quante volte ha ripetuto, povero vecchio conte, di non aver paura affatto di questi primi sintomi dell’angina pectoris che presto o tardi dovrà poi ucciderlo! E come dolorosamente scherzava sull’inutilità di piantare puntelli presso il vecchio tronco ormai logoro e marcio della sua fibra umana! Quando l’ho lasciato mi sono immersa in quel buio spaventoso e affascinante di Assisi notturna, sinistramente interrotto dalle luci livide dei lampioncini velati di viole e dai bagliori improvvisi dei lampi: ed ho rabbrividito di terrore, perché vi ho riconosciuto l’oscurità della mia vita spirituale resa più impressionate e cupa dal contesto violento con i bagliori dell’intuizione che vorrebbero far luce e invece piombano in un più desolato mistero di oscurità. Ed allora ho avuto tanta paura che Dio volesse mandarmi una qualsiasi rivelazione soprannaturale e l’ho pregato che mi risparmiasse la terribile prova, poiché non avrei potuto sostenerla. Si hanno tali spaventi allucinanti in questa mistica Assisi resa più misteriosa dalla lividezza cupa dell’oscuramento antiaereo.
6 ottobre
Sono gaie queste serate con Testi nella stessa stanza da letto impregnata della nostra inesauribile apoteosi per la cara Elisabetta, la quale finisce con l’assumere la consistenza di una creatura viva e giovanissima, infantile e affascinante. E infatti Loretta, Gic e Carletto mi hanno mandata l’altro giorno una cartolina da Firenze con i saluti affettuosi della piccola Elisabetta, la quale, come dice Carletto, “è sempre più in gamba”. Così alla barba della censura continuiamo a comunicarci i nostri sentimenti anche per posta. Con Testi, che è quasi una bambina per quanto professoressa di ruolo di filosofia e pedagogia, le nostre espansioni assumono gli slanci incoerenti e impetuosi degli idealismi quasi adolescenti. Ed io mi sento, con mia somma gioia, assecondata in questo mio inesauribile bisogno di creare fantasmi, che, malgrado tutto, riescono ad illuminare lo squallore reale della mia vita con uno splendore di fantasticherie. Non sono neanche illusioni queste vaghe fluttuanti rappresentazioni di una vita futura, che noi sappiamo destinata ad un grigiore sempre più denso, ma che immaginiamo ricca di avventurose esperienze in quella Inghilterra eroica indistruttibile ed incorrotta, dove attendiamo di rifugiarci appena questo caos orribile si sarà districato. E intanto abbiamo deciso di studiare seriamente l’inglese quest’inverno, per non lasciarla sola la nostra Elisabetta in questo momento in cui tutti l’abbandonano e per prepararci gli strumenti indispensabili ad una più intima e profonda comprensione. Riusciremo mai a vederti, Elisabetta, a conoscerti direttamente? Chissà! Il mondo è pieno di imprevisti e noi abbiamo deciso che non sposeremo mai nessuno all’infuori di un inglese. Ci divertiamo a immaginarlo il nostro romantico inglese esile e resistente, risoluto e tenero, taciturno e ironico. Ricordo a [Tasti] la descrizione che ha fatto Appelius, in uno di quei suoi convenzionali articoli di propaganda, di un prigioniero di guerra inglese incontrato in un campo di concentramento germanico. Era un aviatore catturato mentre cadeva da un apparecchio abbattuto: aveva la fronte spaccata da una cicatrice che gli divideva a mezzo un sopracciglio. Mi è tornato immediatamente alla memoria il Manfredi dantesco. Alla sciocca domanda del giornalista italiano che voleva sapere perché mai gli inglesi facessero la guerra contro la Germania, il giovane rispose con un sorriso sottile e con un cortese cenno di saluto, poi … si allontanò sorridendo. E veramente grazioso doveva essere nel suo gentile riserbo e nella sua dignità. Grazioso: strano aggettivo mi è sfuggito, eppure non ho alcuna voglio di cambiarlo: è forse comico e assurdo usarla per un guerriero, ma i guerrieri inglesi son tutti speciali: non perdono la loro eleganza né la loro individualità neanche in questa orribile guerra moderna meccanizzata. Differenza enorme invece con quel giovane eroico guerriero italiano, che abbiamo conosciuto in questi giorni ad Assisi. Brunissimo ed olivastro, robusto e un po’ tarchiato, esuberante di vitalità un poco felina e sanamente animale, parla con indifferenza spietata delle atroci violenze dei suoi formidabili carri armati: e i denti aguzzi scintillano di soddisfazione. È carrista: ha fatto la campagna di Spagna e l’attacco nelle Alpi contro la Francia: ha tre medaglie al valore, di cui una d’argento, ma non è ancora mai stato ferito: non è un fanfarone, si capisce subito: non parla delle sue prodezze personali, ma di quello che ha visto, con semplicità impressionante che rasenta la brutalità. Ho rabbrividito di raccapriccio. Si sentiva benissimo che non faceva la guerra per un qualche ideale o per difendere una fede profonda, ma per un piacere un po’ belluino della lotta e per il gusto eccitante del pericolo. Sono così i soldati migliori di questo esercito fascista orribilmente somigliante alle antiche compagnie di ventura.
Ci ha detto cose particolarmente interessanti sull’atteggiamento della Spagna nei nostri riguardi. Ha definito esplicitamente quella nostra campagna in terra straniera un fallimento completo, sia collettivo (cioè politico) che individuale. Così come l’Italia ci ha guadagnato una profonda avversione da parte degli spagnoli, i combattenti italiani, che hanno veramente combattuto, hanno riportato di là una profonda delusione e disgusto. Egli, per suo conto, preferisce non mettere il nastrino della campagna di Spagna vicino alla sua medaglia d’argento. Secondo lui, buona parte degli italiani che si erano sistemati in Spagna si erano preoccupati soprattutto di ammassare ricchezze, moltissimi non avevano avuto ritegno a manifestare la loro ingordigia verso le belle donne spagnole. Tutto questo non aveva favorito la nostra buona reputazione. Però moltissimi giovani italiani si erano battuti gloriosamente contro la volontà quasi degli stessi falangisti, usi, come tutti gli spagnoli, a far la guerra con accondiscendente rilassatezza, come uno sport eccitante e festoso e non come una cosa seria. Ma i rossi si battevano risolutamente e con disperata decisione. Ha poi aggiunto una triste notizia: c’erano molti italiani tra quei nemici della Spagna di Franco e si erano trovati di fronte. Anche lui aveva dovuto uccidere un italiano con le sue stesse mani e, al nostro fremito di indignazione, ha aggiunto l’orribile frase: «o io o lui, non c’era da scegliere».
7 ottobre
Sono finite le feste in onore di S. Francesco e mi hanno lasciato un'impressione di sollievo: stasera mi contemplavo con soddisfazione la mia affascinante Assisi tornata, grazie al cielo, quasi solitaria. Però sono state splendide e affascinanti queste cerimonie religiose
6 nov. Orvieto
Ma perché questa pena assillante, che mi spinge a scrivere, mio malgrado, dopo tanto tempo?
Avrei avuto nei giorni passati tante cose da segnalare nel mio libretto e cose importanti. Eppure non sono mai riuscita a trovare il tempo. Ma stasera che è tanto tardi e ho lavoro molto urgente da sbrigare, stasera devo scrivere assolutamente, a qualunque costo. È come una ondata che è salita, salita in tutti questi giorni e poi si è gonfiata e adesso deve traboccare. È bastato questo ingenuo, sciocco film americano, così elementarmente morale, ma fatto con tanta onesta convinzione.
È la loro propaganda, senza note stonate né false, e con una umanità così schietta ed universale. Tutto questo dopo quell’orribile disgustoso discorso di attacco contro la Svizzera fatto stasera alla radio. E anche dopo tutte queste giornate di iniziazione in questo pomposo e stolto collegio della maledetta Gil, dove io un po’ per curiosità e un po’ per sfida ho accettato di venire ad insegnare. E intanto il gorgo della guerra si fa sempre più stringente e insidioso e anche noi ci siamo gettati, come cani rabbiosi e famelici, contro le piccole nazioni disperate e impotenti per strappare ad altri popoli la fede nella proprio vitalità e lo spirito della loro indipendenza. E tutto questo compiamo per metà scettici e per metà disgustati, cercando di non sentire la voce della nostra coscienza civile che vorrebbe ancora protestare, trascinati fino alla catastrofe da quel nostro peccato iniziale che sta diventando il nostro padrone e da cui sembra che non riusciremo a liberarci. Ma forse riusciremo vincitori. Tutti si aggrappano disperatamente a questa certezza del successo finale, perché credono che soltanto in tale modo riusciranno a purificare tutto questo putridume. Ma io non riesco a confortarmi al pensiero della vittoria: sento confusamente che forse soltanto il crollo di questa presuntuosa stupida ingordigia di successo riuscirebbe a salvarci, eppure non riesco a pensare ad una sconfitta italiana senza rabbrividire di orrore e di raccapriccio. Poveri i nostri soldati che eroicamente combattono e generosamente muoiono, così alla cieca, per istinto atavico di dedizione alla patria, senza riuscire ad individuare la causa per cui stanno lottando! Rivedo il viso accorato e oppresso di questo mio nuovo preside quando parlava del figliolo suo aviatore, decorato di tante medaglie, che da Rodi sta per partire per una destinazione ignota. Figura borghese e coraggiosa questo povero direttore della cultura intellettuale per le alunne di questo collegio di Educazione fisica. Pignolo e preoccupato della sua dignità, meticoloso per le formule di legge e per i gradi della gerarchia, appassionato nel difendere la seria gravità della scuola di fronte all’arrogante vacuità di una educazione formale ed esteriore veramente “fisica” e materiale. Ha sostenuto la sua lotta da solo, ribellandosi all’avvilimento di dover sottostare ad una donna comandante, giovane e pretenziosa, gonfia di vanità per un incarico che non avrebbe potuto sostenere. E intanto queste fanciullone escono loro dalle mani ignoranti e frivole, tenere di mollezza e vivide di curiosità femminile, malgrado il loro famoso sistema militare, assolutamente ignare di qualsiasi serietà di carattere. E tutto questo è stranamente misterioso: l’assoluta, inevitabile contraddizione tra tutte le loro chiacchiere rettoriche [sic] e gli effetti pratici della loro azione.
E allora a noi che rimane da fare? Insistere nella sincerità della nostra fede morale, quando questa vacilla così fortemente in noi stessi, quando si prova l’inquietante impressione di vertigine di chi si stia affacciando su di un abisso improvvisamente spalancatosi?
Oppure lasciarsi trascinare dalla loro torbida corrente e abbandonarsi inconsciamente alla deriva? Ma questo ci ripugna e ci sconvolge con una nausea fisica di disgusto. E allora non ci resta che lasciarci trasportare da quell’istinto improvviso di uno strano equilibrio terribilmente instabile, che ci suggerisce volta per volta la reazione a tutto questo scompiglio, ma che ci spinge in situazioni estremamente equivoche e pericolose. Così si prova quella impressione di continua incertezza e si procede in quella condotta imprudente ed assurda che potrebbe portarci alla rovina, ma che fino ad ora ci ha sempre salvato. E allora si vedono le ragazze stupire al linguaggio così poco abituale e divenire improvvisamente avide e curiose di quel misterioso segreto, che intravedono ma non distinguono, che le eccita ma non le persuade. E così noi continuiamo a rimanere sempre noi stesse: creature in bilico in una realtà torbida di cui non siamo responsabili e che, purtroppo, non possiamo né distruggere né superare. Ma perché continuo ad usare il plurale? Sono terribilmente sola in questo chiuso paese strillante di [umidità]: tutti sono malcontenti e pusillanimi, paghi del loro piccolo vantaggio individuale e timorosi di esprimere il loro scontento morale. Sola sono, se forse non vi è già qualche legame tra me e questa matura ragazza napoletana dalle labbra enormi e sgraziata, ma dai limpidi occhi celesti, così lamentosa ed ironica in quella sua parlata cadenzata di dialetto, lenta ed acuta, intelligente e pigra, osservatrice e semplice, sgraziata nel viso bruttissimo e avvizzito, umana e chiara nel carattere fermo e deciso.
18 nov.
Caro Mussolini, ti voglio rispondere e immediatamente, adesso che ho sentito ripetere questo tuo nuovo odiosissimo discorso, che comincia con una bugia e termina con una menzogna. Hai detto all’inizio che la data delle sanzioni segna una tua vittoria ed è invece, senza possibilità di equivoci, la tua più clamorosa sconfitta diplomatica. Tu stesso hai dovuto riconoscere, nel corso del tuo discorso, che la guerra d’Etiopia (a cui sei stato costretto) è la causa più profonda della guerra e dello sconvolgimento attuali: non poteva dunque essere nei tuoi piani tutto ciò: vanesio, presuntuoso ed ingordo lo sei, ma non certo diabolico, mefistofelico. Dunque non poteva essere nei tuoi piani gettare l’Europa e il mondo nella più mostruosa delle guerre: conclusione, non hai vinto, sei stato trascinato e travolto, sia dagli uomini che dagli eventi. Ma hai concluso con una bugia più grande e più ingiusta: non è vero che noi abbiamo già la vittoria in pugno, altrimenti non avresti dovuto confessare che ti ci vorranno dai due ai dodici mesi per sconfiggere soltanto la Grecia, altrimenti non avresti dovuto annunciare che questi sacrifici, ancora per noi tollerabili, dovranno diventare sempre più duri. I nostri soldati, il nostro popolo deve soffrire ben più a lungo questa sua torturante pena di espiazione per averti così a lungo permesso di tiranneggiarlo.
Ma vincerà, io ne sono convinta, non so per quale misteriosa intuizione, vincerà il popolo italiano, non per opera tua, ma tuo malgrado. La tua stolta ambizione avrebbe dovuto mandarlo in rovina, eppure il popolo italiano si salverà per quella sua misteriosa e profonda forza di vita che non può consentire di morire ad energie così fresche e rigogliose. Ma che sarà poi di lui? Io non so. Una cosa è sicura: mercé questa magnifica resistenza dell’Inghilterra, che tu chiami coriacea perché non osi chiamarla eroica, la nostra potenza e il nostro onore si potranno sottrarre all’umiliazione di un asservimento alla Germania. Ormai il mondo sa di sicuro che, isolata di fronte all’Ingh., la Germania sarebbe stata inevitabilmente sconfitta, perché da sola non soltanto non avrebbe mai potuto anche scalfire l’impero britannico, ma non è riuscita neppure a por piede sul territorio inglese. È dunque l’Italia che deve dire la parola decisiva in questo tremendo conflitto. Ma tu questo non lo hai né detto, né fatto capire agli italiani, perché non hai avuto il coraggio di contrapporli neanche minimamente ai tuoi tiranni alleati. Perché tu, malgrado tutta la tua presunzione, sei vile e la temi la voce grossa dei tedeschi, e questa tua paralizzante paura vorresti farla penetrare nel sangue vigoroso di questo nostro popolo, il quale non conosceva, prima che tu lo assoggettassi, che cosa fosse la paura fisica della forza bruta. Ma ora invece come sono spaventati questi tuoi italiani fascisti che, mentre tu parlavi e mentivi, non avevano il coraggio di sostenere il mio sguardo, ma mi sogguardavano di nascosto, quasi timorosi di scoprire la reazione alle tue parole sulle linee del mio volto. E soprattutto li hai impastati di terrore, di malignità e di bassezza questi tuoi odiosi satelliti, che hai disseminato nelle tue organizzazioni, che esaltano la guerra, ma se ne stanno in panciolle a parlottare di parate e di … [sic] perfetto stile fascista, che ti seguono perché ti temono, ma soprattutto perché tu sfami le loro sudicie ingordigie.
Tutti costoro però saranno travolti dal turbine di una guerra più pericolosa e violenta, che perché sia purificatrice, dovrà in primo luogo trasformarsi in rivoluzione rinnovatrice. Costoro sono i piccoli grossi borghesi, di cui tu vai vociferando senza saperli identificare. Ma perché costoro possano essere spazzati via da una buona spolveratura rigeneratrice è necessario per primo scacciar via te, grasso ragno cupido e paziente, che hai intessuto la rete di tanti subdoli interessi per pascerti con i tuoi satelliti della carne viva e palpitante di tante imprevidenti e irrequiete piccole creature avide di movimento e di luce. Soltanto se tu avrai il coraggio di strapparti dattorno tutti questi parassiti paralizzanti, perciò soltanto se avrai il coraggio di mutilarti della parte più abbietta di te stesso, tu riuscirai a dare la vittoria a questa Italia che per 20 anni ormai tu stai inutilmente cercando di naturalizzare, mentre la martorizzi.
Ma in complesso questo tuo falso discorso è stato anche molto fiacco e per te degradante, come una confessione che ti sia stata strappata a forza.
Tu sai che, malgrado le tue leggi, il tuo popolo ascolta le radio straniere, tu sai che, malgrado il tuo servilismo, il tuo popolo odia l’alleato che gli hai imposto; ed hai perciò cercato di rettificare notizie che avevano allarmato gli italiani e di nuovo ti sei affannato a gridare che non sarà merito del popolo italiano la vittoria finale, ma dei suoi prodi alleati. Triste la tua smaniosa insistenza nel voler proclamare incrollabile una alleanza cementata dal sangue! Come se noi non ricordassimo che proprio tu ci hai costretto a dimenticare il sangue versato insieme con Francia e Ingh. contro il comune nemico! Come se noi fossimo tanto sciocchi da non ricordare la causa dell’odio della Grecia non contro l’Italia, ma contro il fascismo che ha sobillato Venizelos contro il re del popolo greco, proprio lui, il regime fascista, restauratore delle forze della legge e dell’autorità! Come se noi fossimo così smemorati da non ricordare che ben diversa, anzi opposta era l’Italia invocata dai Santorre di Santarosa e del suo forlivese sconosciuto, anch’egli immolatosi per l’indipendenza dei popoli liberi!
È per questo che odi con tanto accanimento, vero, noi intellettuali che osiamo continuare a pensare mentre tu parli e che, ancora, continuiamo a controllare la verità di quello che affermi mente il popolo grosso beve le tue vociferazioni supinamente con una buona incoscienza condita di ingenuità e di sacrosanta ignoranza?
Diceva quella intelligente e ironica mia collega napoletana questa mattina, nel sentire la tua voce violenta “Deve parlare perché il popolo italiano è troppo perplesso in questi giorni: non dice niente, né bene né male, di quello che avviene; è caduto in un’apatia completa”. E tu così hai tentato di rialzargli il morale, promettendogli sacrifici più duri e una guerra lunga, ma minacciandolo, se mai volesse agitarsi, di una paura più grande che è la paura di te, che ordini di colpire coloro che definisci “i piccoli borghesi”. E allora mi viene davanti la figura di questo mio disgustoso collega dall’occhio strabico e dai capelli ritti sulla testa bernoccoluta, il quale, per soddisfare la sua ambizioncella miserabile, sta lì in agguato per accusare non soltanto il Preside ma tutta la scuola di poco stile fascista e minaccia di avvertire la autorità superiori della GIL.
Miserabili, abbietti “piccoli borghesi” sono, Mussolini, questi tuoi zelanti fautori che ti servono docilmente per la loro ignobile stupida avidità, compiaciuti da te nelle loro vacue ambizioni!
18 nov. (sera)
Ho sentito il commento dei fatti del giorno da Londra: la voce vibrante ed energica del caro colonnello Stevenson riusciva a dominare a stento i fischi e i mugolii della stazione vivacemente disturbata. Ha detto quasi le mie stesse parole, ma con meno impeto e dolore. Certo lui che non è costretto da nessun legame sia pur soltanto fisicamente naturale con questa orribile gente!
Ma triste soprattutto è stata quella sua acuta osservazione sopra i nostri alpini gloriosi che vanno a morire per strappare la libertà ad un popolo piccolo, non pericoloso, né confinante, mentre sguarniscono quel confine italiano del N. così sensibile e così oppresso dai suoi cupidi e straripanti vicini. Ma, così è, colonnello; essi diranno domani che le tue parole sono astute ipocrisie e questa nostra pena ingenuità dissennata; mentre noi sappiamo che ciò che tu dici è purtroppo la verità. La tua propaganda è onesta e veritiera e forse per questo tu sei condannato ad essere vinto ed io sono condannata a non essere mai creduta, poiché la verità ormai è diventata un cibo troppo duro ed acerbo per il gusto corrotto di questi deboli uomini. Facile è stato oggi nella discussione con i miei nuovi colleghi persuaderli delle stolte menzogne e vili debolezze di quel discorso odierno mussoliniano, ma anche inutile purtroppo! Una volta persuasi, hanno scosso le spalle interdetti ed hanno ripreso a sorbire il tè ed a parlare di quei loro piccoli interessi insignificanti.
28 novembre
Ho letto un articolo di un giornalista italiano sopra la posizione delle forze inglesi e tedesche di fronte alla Manica. L’ho letto per caso, come se mi attirasse irresistibilmente, là, nella sala dei professori, mentre stavo per uscire. Non mi piace ricercare questi articoli di propaganda che in genere deformano la realtà e insolentiscono vilmente e volgarmente. Ma oggi ho dovuto leggerlo. Chissà perché? Stava appesa al bastone dei giornali con provocante abbandono. Un foglio cascato giù, come per caso. Vi è descritta la differenza e la disparità delle due forze messe di fronte. L’una piccola, ristretta su se stessa in uno sforzo spasmodico di difesa, indomita nella sua resistenza disperata ed eroica come un nocciolo durissimo che non si voglia far schiacciare.
L’altra allargata ampiamente per tutta la lunga costa europea come una gran forca spalancata pronta ad ingoiare il nocciolo che non ha potuto stritolare. Per arte giornalistica di propaganda, o forse anche perché corrisponde alla verità, lo scrittore insiste sulla rappresentazione della fluidità della preparazione aggressiva germanica che gioca sull’ampia disponibilità di spazio per rendersi elastica e spostabile, come una formazione di gomma: può contare in tal modo di divenire inafferrabile e può tenere l’avversario sotto l’incubo della sorpresa. Su questo elemento della sorpresa il giornalista gioca con maliziosa compiacenza, come per stimolare la curiosità del lettore e supplire alla sua sostanziale mancanza di notizie.
Effetto di propaganda e di furberia questo. Ma sul resto, in quella indiscutibile, lampante dimostrazione di inferiorità della piccola isola assaltata da tutti i lati e costretta ad una difensiva disperata di costruzioni formidabili, di fronte ad un nemico libero e padrone ormai della situazione, in questa certezza, in questo compiacimento, sta lo squilibrio orrendo e quasi fatale che spaventa e inorridisce: Hitler è riuscito ancora a porsi in una condizione di superiorità impari e comoda che non può non portarlo alla vittoria: egli è di nuovo riuscito diabolicamente a rendere la cosa facile, inevitabile. E ancora mi torna addosso quello strano brivido di raccapriccio: come Faust, l’eroe sinistro della sua razza, egli ha barattato l’anima sua col demonio per avere quaggiù la gioia del trionfo. Questo assurdo raccapriccio di superstizione mi afferra con involontaria insistenza, io, che ho sempre sorriso sprezzante della superstizione. È vero dunque che l’orrore di questa strapotenza germanica ci piomba tutti un’altra volta in un nuovo convulso medioevo. E sembra quasi fatale che a noi l’alleanza germanica debba portare disgrazia come una maledizione. Lo avevo intuito allora, quando, allo scoppio della guerra, avevo rabbrividito all’ombra sinistra del ’66. E sembra adesso che i miei irragionevoli timori di allora si siano trasformati in una cruda realtà. La Grecia ci sta sconfiggendo, ci incalza sempre più presso in territorio albanese. E noi, invece di ribellarci, guardiamo per primi ammirati al suo eroismo e pieghiamo il capo come per una punizione che sappiamo di meritarci.
L’Italia non riesce a compiere volentieri un’azione che la ripugna. Mentre la Germania è uscita sempre più orgogliosa di sé dalle sue ignobili brutalità, l’Italia si ripiega con malinconico disgusto di fronte alla violenza che le si impone: e non la sa compiere, perché non l’avrebbe voluta. E quegli stolti vili italiani, che il fascismo ha forgiato rettili, si vergognano di questa loro patria infelice e protestano e la insultano, additandole l’esempio della Germania invincibile, la quale ha condotto a termine tutte le imprese che ha voluto intraprendere con gelida imperturbabilità. Essi giungono a desiderare che venga finalmente la Germania a mettere le cose a posto anche da noi. Nessun senso di onore né di prestigio hanno più questi esseri immondi, i quali ciarlano naturalmente stando al riparo dalla battaglia. E intanto io tremo aspettando che da un momento all’altro Hitler comandi che le sue truppe avanzino attraverso la Bulgaria per domare quella Grecia presuntuosa che gli italiani non hanno saputo colpire. Forse questo eccidio orrendo di stamattina nelle carceri di Romania sarà stato ordinato da lui a tale scopo, per terrorizzare gli spiriti dei rumeni da poco sottomessi ed aver sicure le spalle prima di accingersi alla sua nuova prodezza. Attendo terrorizzata questo momento, perché sarà, quando i tedeschi colpiranno la Grecia alle spalle, che essi ci lanceranno sul volto l’insulto della loro schiacciante superiorità, perché essi ci sono veramente superiori sul male e perciò superiori in ogni residuo della nostra vita, da quando noi abbiamo voluto rinunciare ad agire in favore del bene.
Quell’articolo di quel nostro giornalista a servizio del Reich mi ha rinnovato il dolore di tutta questa umiliante nostra realtà. Egli, con la sua fatua soddisfazione per aver potuto veder da vicino la grandezza del nostro padrone, mi ha strappato dolorosamente dall’illusione che senza volerlo mi ero creata. Ripetevo a me stessa in questi ultimi tempi che, da quando Hitler aveva fallito il suo sbarco in Gran Bretagna, la decisione della vittoria finale nono sarebbe più spettata a lui, ma a noi italiani, quaggiù in questo affannato Mediterraneo. Poi son venuti i nostri insuccessi, i quali più che scuotere la mia convinzione, mi hanno spaventato per l’ondata di avvilimento che hanno gettato su questi miei disgustati italiani. Essi hanno accettato la sconfitta temporanea come una batosta inaspettata ma inevitabile ed accolgono i sacrifici nuovi con una apatica accettazione priva di entusiasmo e di ribellione.
Ma i tedeschi no; loro vogliono vincere a tutti i costi. E dopo tutto non è difficile per loro vincere, prima o poi, ben lo dimostra il nostro zelante giornalista. Sotto la loro pressione l’Europa giace rassegnata se non persuasa e la loro organizzazione meticolosa paralizza ogni velleità di ripresa: di fronte a tanta inerzia spirituale europea anche l’Inghilterra finirà con l’inabissarsi come in una palude di acqua stagnante.
La sua resistenza potrà essere eroica, ma sarà inutile, poiché non è possibile infondere un’anima a chi preferisce rimanere un automa e l’Europa dà segno, purtroppo, di essere come ipnotizzata tra le gelide dita di Hitler e, se non saprà sottrarsi spontaneamente a questa narcosi spirituale, è inutile che l’Inghilterra insista disperatamente a tentare di risvegliarla.
Ma che cosa sarà dell’Europa dopo la scomparsa dell’Inghilterra? Non riesco ad immaginarla paralizzata e muta sotto l’uniforme germanica e temo, disperatamente temo, che stiamo ormai per assistere alla sua morte: scomparirà la nobile, irrequieta Europa, feconda di genialità! E l’America lo spera cupidamente, che sia ormai presso la fine di Europa: a tale scopo sta ricattando l’Ingh. nei modi più disgustosi, strappandole a brano a brano i suoi domini al di là dell’Altantico. E l’Ingh. si spoglia con coraggiosa dignità per non venir meno alla sua parola, come una nobile casata che cede i suoi beni materiali per non macchiare l’onore del suo nome e per tentar di salvare la grandezza della sua famiglia. Solo l’Ingh. ancora vuol salvare l’Europa, proprio mentre la Germania si sforza disperatamente di sradicarla dall’Europa. Mi sono sorpresa quasi involontariamente a rivelare di fronte alle mie alunne questo mio nuovo prorompente amore per l’Europa tanto dilaniata. Io stessa sono rimasta stupita delle mie parole fin troppo chiare e anche un po’ preoccupata. Le ragazze si sono scosse. Una anzi si è alzata e ha detto: “Mi era stato detto tante volte che dovevo sentirmi italiana, ma non avevo mai pensato di essere anche europea: è la prima volta che qualcuno me lo fa pensare”. E allora ho pensato tristemente che il fascismo ha evitato in tutti i modi, per un suo sordo istintivo egoismo, di dare ai giovani una coscienza europea e intanto le ho ricordato le nobili parole del Gioberti, che mi avevano tanto impressionato da ragazzina: “L’Italia ha dato la vita all’Europa, la quale ha poi dilaniato l’Italia. L’Europa si farà più grande quando ritornerà all’Italia ricostruita”. Così almeno le ricordo da allora, quando la scopersi in quel vecchio libro ingiallito e polveroso. Ma Mussolini non deve aver mai sentito risuonare nel suo spirito l’ammonizione del Gioberti e lascia tranquillamente che Hitler si impossessi della vita europea: ed Hitler finirà col paralizzarla l’Europa, poiché non sarà mai capace di comprenderla.
(1) E così mi ha sorpreso con gli occhi rossi di […] vergognose della mia debolezza mentre assistevo a questo desolato film di Michael Morgem, ed ha finito poi per commuoversi anche lui, non so proprio se per riverbero della mia commozione oppure perché davvero sentisse pena anche lui. Ma io piangevo piuttosto per la vera straziante sorte di Francia che per la tenue vicenda fittizia del film. E pensavo che queste sue bellissime creazioni artistiche sono state per la Francia
3 dicembre
Veramente sono molto indignata contro il mio imperdonabile sentimentalismo, ma davvero non riesco ad assistere senza commuovermi a questi ultimi tristi ed accorati film francesi. Proprio come il doloroso canto finale del cigno. Povera Francia! È come se presentisse l’imminenza della sua tragica fine.
Sono come vecchie tristi storie tanto vere ed eterne e così deliziosamente venate di sfumature sentimentali questi ultimi film della nobile libera Francia. Ella era tanto dolce ed accorata perché capiva tutto il dolore della povera umanità sofferente, anche il dolore delle creature in peccato, che ella sentiva più infelici che colpevoli, come se presentisse che tutto questo male attuale era nullo in paragone a quello che doveva venire. Ma di fronte a tutto questo male la Francia non reagiva né con virulenza, né con orrore, né con ribellione; soltanto dolcemente soffriva e compativa. E così ha fatto di fronte all’odiosa ignominiosa nostra aggressione vigliacca: metà prostrata e tutta dolorante, ha dato un ultimo sussulto di spasimo e poi si è abbandonata, vinta da uno scoraggiamento disperato di fronte a così grande malvagità da parte di coloro che, malgrado tanta contrapposizione, le apparivano così simili ai suoi propri figli, almeno nell’aspetto esteriore e forse anche nell’intimo smarrimento. E questa del
la tua povera Francia, Pétain, non era corruzione, come la tua intransigenza senile le andava rimproverando e come, dopo di te, stanno ripetendo tutti questi ribaldi luridi di prostituzione e di cinismo. Era soltanto una debolezza, fatta di sentimentalismo e di sensibilità, forse un po’ morbosa ed inquinata, stupefatta di fronte a così gelida cupidigia. E la dolcezza generosa e silente dei tuoi figli buoni ha scosso in quei giorni anche i tuoi nemici, Francia sventurata. Ricordo come gli italiani avevano un’ansia frettolosa che finisse al più presto quella guerra impari e ripugnante; ricordo la perplessità commossa di quel poeta giornalista tedesco il quale confessava
l’ammirazione provocatagli da quel contadino francese che devotamente, amorosamente curava ancora, durante l’orrido disastro, le tombe dei soldati francesi e tedeschi morti durante la guerra del ’14, senza provare nessun odio per il nemico fatale del suo paese, senza far distinzione di fronte all’eroismo dei giovani di due popoli generosamente ed inutilmente immolatisi.
4 dic.
Sempre più la nostra guerra rimane statica e stagnante in secondo piano, mentre i tedeschi attaccano con nervosismo sempre più rabbioso i centri industriali della Gran Bretagna: 1000 aeroplani mandano su una piccola città di provincia, distruggendo furiosamente ogni cosa, per esser sicuri di colpire gli obbiettivi militari. E mentre l’Inghilterra palpita dolorante, i nostri orribili giornali esultano di fronte a questi trionfi non nostri, a queste prodezze di cui non siamo gli autori. E sperano così di distogliere la nostra pena da quei ragazzi eroici che si aggrappano sui monti dell’Albania per non cedere il terreno. E ci umiliano invece con questo volerci divagare: di loro dovrebbero parlarci, invece, e non delle prodezze ripugnanti dei nostri orrendi alleati.
Venerdì 6 dicembre
Ero tutta lieta stamattina per questa mia scuola che fluisce facile, piena di colore e di semilibertà: le bambine seguono vibranti e curiose con un abbandono dolce e gaio, ed i poeti vivono con noi, giovani e freschi, afferrandoci nel flusso della loro vitalità rigogliosa e suadente, mentre il genio degli uomini grandi si purifica del loro egoismo nella vasta prospettiva della incalzante storia umana feconda di civiltà. Poi ero felice perché oggi potevo tornare a Roma e liberarmi da questo stagnante torpore penoso della provincia con un tuffo in quello sperpero vertiginoso di irrequieta energia che è la vita di Roma. Sognavo impaziente il mio Vaticano ospitale e raccolto e i miei amici e familiari generosi di affetto ed avidi di me e poi le ricerche sul mio diplomatico spagnolo del 500 e il palpito dei teatri e forse anche l’emozione sottile dell’Augusteo, cioè dell’Adriano (purtroppo). E invece tutta la mia gaiezza si è spenta a quell’urto brutale della radio che annunciava la nuova ritirata in Albania e le dimissioni di Badoglio. Anche la voce, di solito meccanicamente impassibile, dell’annunciatore palpitava di commozione e noi siamo rimasti di stucco, con il cuore fermo e il respiro mozzato, mentre portavamo alla bocca il primo boccone di cibo; impossibile è stato poi continuare il pranzo …
Dunque anche Badoglio ci abbandona, ultimo nobile vigoroso legame alla nostra gloriosa onorata storia di ieri. Dunque rimarremo definitivamente alla mercé di questi farabutti vigliacchi, che ci trascineranno sempre più a fondo nel gorgo dell’ignominia. E la guerra? La guerra sembra già quasi perduta. Ormai dovremo accettare che la vincano loro soltanto gli odiosi tedeschi, perché poi domani ci disprezzino a ci ricattino a loro piacimento. Tutti eravamo sconvolti: il padrone di casa, il vispo coraggioso maresciallo, che ostinatamente vuole accettare la propaganda fascista perché crede ciò suo dovere; il cognato, uomo sensato e cosciente, che ha deciso una volta per sempre di pensare con la sua testa e si ribella ad ogni sopraffazione ed inganno; la massaia di casa, tutta affannata attorno agli intingoli che devono accontentare i suoi uomini esigentissimi e pure così semplicemente intuitiva nella sua sana umanità femminile; e la fanciulletta ventenne capricciosa e viziata, ma così restia a lasciarsi costringere a odiare quei popoli intelligenti e sensibili che hanno saputo affascinarla col loro avvincente cinematografo; e la vecchia nonna sempre silenziosa, pensosa e accorata per le vite inutilmente stroncate di tante giovani creature inconsapevoli. Eravamo uniti come famigliari con queste persone semplici e oneste, noi che ieri eravamo ancora estranei, uniti nel nostro dolore e forse nel nostro odio segreto. Abbiamo sentito Londra stamattina, fuori dalla nostra solita ora, e soltanto lei ci ha un poco confortato, perché proprio lei ha voluto dirci che quella di questi giorni per l’Italia se appare una dura sconfitta non deve però neanche essere considerata una disfatta.
Poi la sua propaganda si è esplicata con la solita abilità sottile e insinuante ed il caro onesto maresciallo ha osservato dolorosamente che lui non vuole sentirla la parola dell’Inghilterra, poiché non vuole esser costretto a non credere a quello a cui è necessario, è obbligatorio credere. Povero nobile soldato! Non capiva così di avere apertamente confessato che la sua onesta devozione non era frutto di una fede consapevole, ma di una disperata deliberazione di volersi illudere a tutti i costi.
Venerdì 11 dic. [1940] [in realtà mercoledì 11]
Si indietreggia anche in Africa settentrionale: Sidi el Barrani è stata ripresa dagli inglesi: i nostri generali muoiono sul campo o sono fatti prigionieri. Tutto si fa sempre più buio. Sarebbe il momento di riunirci per riprendere lo slancio e di appoggiare con la nostra vitalità questa marcia impalcatura fascista: forse in tal modo si potrebbe sostenere anche l’Italia. Ma quei molluschi ciarloni continuano a blaterare fatue parole gonfie di prosopopea e a sentirsi orgogliosi della rabbiosa violenza germanica e allora ci si sente riprendere da una invincibile nausea e ci sorprendiamo a pensare, con stupito scoraggiamento, che dopo tutto qualsiasi cosa è più sopportabile di questa vacuità bugiarda e senza pudore, che l’unica cosa veramente urgente oramai è purificare l’Italia da questa contaminazione priva di forza e di dignità, da questa prostituzione di coscienza senza energia.
Roma, Domenica dic.
Oggi è venuto da noi un reduce dalla Libia, il nipote di Edvige P. M. ***. Annie, che lo aveva conosciuto prima della guerra, è rimasta stupita e spaventata: a stento ha potuto trattenere la commozione. Era un giovane robustissimo ed esuberante, molto gaio ed elegante, viziato da una famiglia ricca ed indulgente, vivace e splendido con la sua bella testa di capelli castani e ondulati; scherzava con il suo spirito umoristico e intelligente e non prendeva nulla sul serio nella vita. Io non lo conoscevo ma ho visto in lui un uomo magrissimo e terribilmente alto dal viso giallastro ed emaciato dall’ampia fronte calva e pensosa e poi... gli occhi vastissimi e come assenti, la voce opaca e stanca, che sapeva di sofferenza contenuta. Poi eravamo curiose ma lui non voleva parlare, anzi ci ha pregate di lasciarlo parlare ma dalle sue rapide allusioni tanti spaventosi sottintesi si intuivano. Soltanto una cosa ha espresso chiaramente e senza ritegno, con energia insospettata in quel suo povero magro corpo consumato: la sua indignazione violenta contro quei vili che al sicuro in patria da ogni più lontano pericolo di guerra, commentano con sprezzante noncuranza le azioni di quegli eroi sventurati, costretti laggiù ad un’orribile guerra non sentita, mal equipaggiati, non appoggiati dalla minima comprensione delle atroci difficoltà in cui si dibattono. A stento a Napoli sono riusciti a trattenerlo mentre tentava di slanciarsi contro uno di questi bellimbusti immondi e ora afferma che non vedeva il momento di togliersi la divisa: “finché mi sento addosso l’uniforme non posso sopportare che si parli a voce alta di fronte a me di queste cose. Si sente la responsabilità dell’abito che si porta”. Tristi parole che esprimono il dramma del momento! Come da lui del resto, da tante parti si sente l’eco sempre più incalzante di questo dissidio sordo ma serrato fra esercito e dirigenti politici. Gli ufficiali che hanno già fatto la guerra e che stanno per partire si frenano a stento e preferiscono non parlare di queste cose odiose, come compressi da un ordine generico che devono aver ricevuto. La loro riservatezza mi appare simile a quella tenuta dai preti all’inizio di questo conflitto. Mi ricordo come D. recalcitrava mordendo il freno di fronte alle mie incalzanti inesorabili argomentazioni. Ed ora anche i nostri ufficiali sono costretti a soffocare in loro un risentimento che è la rivolta contro un’accusa ingiusta e infamante. Quei manigoldi che hanno risucchiato tutta la linfa vitale dell’Italia per il proprio egoismo, quell’autocrate decadente che ha ingannato e si è illuso per la propria ambizione, di fronte al crollo della loro losca turlupinatura, di fronte al rivelarsi lampante dell’equivoco in cui hanno coscientemente giocato, con abile manovra sgusciano dalla maglia della responsabilità che, da quei viscidi vermi che sono, vorrebbero addossare agli innocenti strumenti delle loro losche manovre. L’esercito è in questo momento il capro espiatorio più adatto per salvare, almeno apparentemente, la situazione. Perciò mentre gli stolti diplomatici del fascismo anticomunista si precipitano a Mosca per salvare la loro compromessa situazione diplomatica e militare, qui in patria gli imboscati fascisti dileggiano ufficiali e soldati, marinai e ammiragli, accusandoli come responsabili delle sconfitte provocate dalla improvvida e vile politica del loro capo. E dire che il movimento fascista pretende ancora di essere stato il campione dell’antibolscevismo e il tutore della dignità dell’esercito italiano! Ma per il decoro della verità è bene che questi delinquenti siano smascherati, per l’igiene dell’onestà è una purificazione che tale putridume si riveli invece di incancrenirsi nascosto. Però chi soffre di tutto questo smarrimento è l’infelice, nobile Italia: come madre troppo indulgente ed eccessivamente debole ella si è lasciata sopraffare dalla violenza e dall’egoismo dei suoi figli indegni ed ora sconta le conseguenze di quel suo fallo iniziale, mentre noi, i figli trascurati e negletti sentiamo gemendo la sua orribile pena, impotenti a liberarla. Impotenti ancora, fino a quando mio Dio? E siamo noi naturalmente che adesso insorgiamo a difendere l’onore della nostra patria, mentre i molteplici vili Farinacci l’insultano stoltamente. Annie oggi con ammirazione ed entusiasmo cercava di rianimare le sfibrate energie di quel nobile ufficiale, il quale l’ascoltava stupito e confortato; e così l’altra sera aveva sostenuto gli sfoghi che la sua amica A. le faceva a nome dei suoi parenti ufficiali profondamente disgustati. Grazia nella sua scuola insorgeva violentemente contro l’ironica diffidenza dei suoi piccoli alunni che la schernivano mentre esaltava il valore dei nostri soldati. Io, in quello stolto collegio fascista, tento ripetutamente con energia disperata di far sentire a queste fanciulle frivole e un po’ svagate la voce dell’eroismo vero, dello sforzo immane dei nostri soldati abbarbicati alle montagne dell’Albania, dispersi fra le sabbie del deserto, chiusi nella roccaforte dell’Abissinia, sospesi nel cielo, insidiati nel mare, dovunque privi dell’equipaggiamento indispensabile, della potenza di mezzi e di armi moderne e veramente efficaci, in emulazione con un alleato più fortunato ed astuto, che ci ha trascinato in guerra per il suo egoismo nel momento in cui eravamo stremati dagli sforzi precedenti, che è riuscito facilmente a trionfare su avversari dieci volte più deboli di lui, disorganizzati e impreparati alla guerra. Esse mi ascoltano stupefatte ed avide, fremono di entusiasmo e di ammirazione ma non capiscono da che cosa io attinga tanta passione, esse abituate alla sazietà di una esaltazione convenzionale ed adulatoria di un amico uomo (che scrivono Uomo con la lettera maiuscola) da cui attendono la risoluzione di tutti i problemi come da un comodo e tradizionale “Deus ex machina”, il quale in realtà si rivela altrettanto fittizio ed assurdo quanto artisticamente goffo e vano è il suo sinonimo di teatro.
E così siamo noi a sostenere la lotta più dura contro l’eroica Inghilterra che non sembra stremata da tanti colpi e da tante defezioni. Triste è per noi questa nuova necessità, ma non incrina affatto la nostra ammirazione affettuosa verso di lei, anzi è come se la cementasse con una sostanza più vigorosa impastata di sofferenza e in queste lotte senza odio noi sappiamo che rinvigoriscono i nostri legami, poiché si saldano con la fiamma della nostra dignità e del nostro indistruttibile onore.
Orvieto, 3 gennaio ’41
Ma i nostri compatrioti fascisti divengono sempre più disgustosi. Il loro servilismo per la Germania aumenta di giorno in giorno come una marea che avanzi inesorabilmente, quasi per forza fisica. Andando da Orvieto a Roma in questi giorni di vacanza ho più volte incontrato treni di munizioni e di auto germanici, accompagnati dalle loro truppe. Un ufficiale aviatore mi ha spiegato: “I tedeschi non vogliono inviare materiale da guerra senza uomini di accompagno”. Gli ho chiesto: “In quale fronte scenderanno ad aiutarci?”. Tranquillamente ha risposto: “le truppe germaniche non vanno ai nostri fronti di guerra: là mandiamo esclusivamente soldati italiani. I tedeschi vengono con le loro armi per difendere il territorio metropolitano d’Italia” “Difendiamo dunque la nostra terra e le nostre case con truppe straniere?” Ha avuto un piccolo sussulto di disappunto ma ha controbattuto: “non sono stranieri ma alleati”. Ho protestato: “ma comunque stranieri”. E allora ha concluso con noncuranza: “sono decisioni della commissione interalleata”. Ho taciuto.
L’altra sera andammo a fare gli auguri al gerarca che abita sopra di noi. Brave persone buone e grossolane, tutte pomposamente emozionate della loro recente prosperità, generose e semplici ma tanto sciocche. I loro bambini sono come tutti i bambini: deliziosi e teneri e vivaci di irrequieta gaiezza. Li abbiamo visti andare a letto nei loro lunghi pigiamini colorati.
Il babbo orgoglioso ha proposto: “Ora nascondiamoci dietro la porta e osserviamoli mentre dicono le preghiere”. E poi ha aggiunto trionfante di soddisfazione: “ Dicono tutte le sere l’Ave Maria in tedesco”. E così i nostri bambini storpiano le dolci parole della preghiera in quell’orrida lingua irta e complicata, senza comprendere la poesia austera delle sacre invocazioni.
Un mio cugino ha recentemente sposato una tedesca. Era andato in Germania per divertirsi, per perfezionarsi nella lingua e per dimenticare una fiamma giovanile. È tornato con una ragazza tedesca, protestante, non bella e neppure giovanissima, che l’aveva invischiato così tenacemente da costringere i genitori ad acconsentire al matrimonio. Ora ne è stoltamente schiavo, lui che tanto aveva tiranneggiato la sua famiglia, da cui era stato viziato con particolare tenerezza. Oggi ho incontrato i bambini di sua sorella, una mia cugina: due fanciulletti graziosissimi che saltellavano in mezzo alla neve in costumini elegantissimi con i pantaloncini lunghi da sciatori. Ho fatto i miei complimenti alla nonna che ha esclamato orgogliosamente: “Stanno bene nei vestitini alla tedesca!” E facciamo la guerra per liberare il nostro popolo dai ceffi stranieri! E proclamiamo la nostra autarchia! Eppure c’è una differenza enorme tra questa nostra schiavitù attuale verso i tedeschi e quella italiana dipendenza di gusto e di materiale dai francesi e dagli inglesi nell’Ottocento. Allora eravamo come affascinati da qualcosa di più raffinato e civilmente maturo, come bambini che osservano con invidia ammirazione le persone adulte e si sforzano di imitarne le acconciature e gli atteggiamenti. Eravamo un po’ goffi in quella nostra mania di imitazione ma c’era tanta fanciullesca semplicità in quella goffaggine, tanto schietto desiderio di miglioramento. Adesso invece si nota una supina accettazione della tirannica pretesa superiorità di un alleato che noi stessi proclamiamo più forte e potente, quasi come un assioma, senza bisogno di giustificazione né tanto meno di dimostrazione. E perciò si imita con sottomesso servilismo, con vile sfacciata adulazione, quasi sperando una ricompensa da questa nostra premurosa subordinazione. E va di moda ormai disprezzare tutto ciò che fanno o che dicono o che producono gli italiani, contrapponendolo con i capolavori, con la perfezione, con la disciplina degli inconfondibili tedeschi. Maledetta la loro supina, lessicale disciplina! Senza di essa il mondo sarebbe salvo. L’altra mattina a tavola mi è sfuggito nuovamente il mio doloroso rammarico per la crescente penetrazione delle truppe tedesche in Italia: “è come una vera occupazione militare, come quella della Romania!”. In più mia sorella sdegnosa ha osservato: “è giusto, per quello che sappiamo fare noi!” Mi sono sentita ribollire il sangue, ma ho taciuto poiché cose troppo violente e irrevocabili e odiose avrei voluto dire. E intanto sento allentarsi inesorabilmente anche i più sacri legami di sangue. Tanto siamo divisi da questa stolta, ignobile, inutile guerra!
Ma intanto mi sento come rimasta sola ad amarla questa mia sventurata Italia. I fascisti continuano a prostituirla vendendola a Hitler purché egli si impegni a conservare le loro prebende e molti dei miei amici, di coloro che hanno sempre pensato come me, sono ormai alquanto disgustati della loro patria: “A forza di sentirla chiamare patria fascista si finisce col sentirla estranea, come una corsa che non ci appartenga, come una famiglia che non è la nostra”. E continuano a sperare nella vittoria dell’Inghilterra. Io invece mi sento come divisa, frantumata internamente: capisco che la vittoria della Germania segnerebbe la nostra rovina, il nostro definitivo totale asservimento. Eppure non riesco a pensarla sconfitta la mia patria nobile e valorosa, non posso sopportare il pensiero che l’eroismo dei nostri soldati debba rimanere inutile e disperato.
In mezzo a tutta questa mia confusa agitazione io mi conforto in una strana maniera: mi attacco tenacemente all’ideale del nostro esercito nobile e valoroso e intanto studio l’inglese con quel dignitoso e forte nostro amico ebreo che ha sopportato con animo impavido la sua rovina finanziaria, la fine del suo lavoro, la partenza dei figli per la Palestina, la morte improvvisa e tragica della sua bella moglie luminosa e intrepida.
Orvieto 6 gennaio ‘41
[Lori] si è fidanzato con una tedesca! È troppo orribile, quasi grottesco! Per questo da tanti mesi non mi scriveva più e neanche gli auguri per Natale mi ha mandato quest’anno. Gli altri anni per Natale mi regalava i libri di Van L***. Ma ora si vergognava: a me non poteva dirlo, ma aveva troppe volte sfogato i suoi sentimenti contro di loro. Ed ora... anche lui è stato imprigionato, lui che sembrava così libero e superiore, così incontaminato. I nostri uomini, gli uomini che noi abbiamo amato! Così senza resistenza, smidollati e fragili negli artigli di quelle donne straniere alte, grosse e volgari, invadenti e cupide, senza che il loro sangue richieda un fuoco più raffinato e puro, senza che la loro genialità si ribelli ad un asservimento: le donne dei dominatori stringeranno la catena del nostro asservimento, perché i nostri uomini sdegnano la nostra virtù e il nostro amore semplice e profondo, perché non vogliono più il nostro pudore. E ci si sente circondate da quelle donne che ci strappano i nostri uomini così come il loro infido capo ci strappa la nostra patria. Tutto ci portano via poco per volta, brano a brano, tutte le cose più sacre e più care e ci lasciano solo il cuore per la sofferenza.
[per motivi di capienza del campo, la trascrizione prosegue nel campo Allegati]
- Descrizione estrinseca
- Block notes 18x12 cm.
- Allegati
- [segue dal campo Contenuto]
Domenica
Ieri è venuto a trovarci e ha annunciato il suo fidanzamento. Ha incontrato papà alla banca e siccome è un gentiluomo corretto ed educatissimo, ha creduto di doverci la visita rituale di auguri per le feste, anche se molto in ritardo. Ed è venuto. L’ho sentito subito estraneo, come se non l’avessi mai amato. Eppure soltanto adesso mi è sembrato di conoscerlo veramente. E in verità mi è apparso molto comune e quasi superficiale. È come un fuoco che si sia spento. Ricordo la curiosità ansiosa della ricerca per scoprire la reale sostanza della sua personalità! Credevo sempre di aver afferrato le sfumature decisive del suo carattere, piccole cose sottili che lo rivelassero: e invece era sempre diverso. E così il gioco diventava più affascinante perché sempre più enigmistico, e nell’illusione di un mistero insolvibile l’intensa vibrazione del sentimento si riscaldava. E costruivo da sola. E evidentemente amavo da sola. Ora invece tutto è apparso chiaro e anche disperatamente semplice. L’ho sentito parlare della sua professione e della sua vita ed ho finalmente ascoltato semplicemente le parole che diceva. A che serve la sua intelligenza così profonda? A che serve la cultura accurata e severa che ci hanno impartito i nostri maestri? A fare una lotta di propaganda cosiddetta “culturale” in concorrenza con i tedeschi per l’accaparramento dei Balcani. Era tutto orgoglioso di spiegazioni il suo nobile gioco: come due ditte concorrenti che si contendano il mercato per lo smercio dei loro prodotti, i direttori delle accademie di cultura italiana e tedesca si precipitano a sottrarsi di mano la “piazza” con la più agile astuzia possibile: chi arriva prima afferra la scuola dove far insegnare la propria lingua. E i poveri Bulgari assistono smunti e passivi alla miserabile lotta tra i due paesi dell’Asse d’acciaio. Non sono messi di fronte alla produzione di questa cultura, non sono interrogati sui loro bisogni e sulle loro simpatie: gli si impone di accettare il fatto compiuto e di tacere. Del resto ben poco hanno da smerciare i governi dell’Asse ai miseri Balcani: essi giocano sull’equivoco e barano cinicamente: nessuna sostanza o forma hanno saputo produrre in fatto di cultura fascisti e nazisti. E allora egli, che aveva una volta tanto buon gusto e così tanta profondità! Come riesce a manovrare l’inganno? Come resiste all’equivoco immorale lui che sembrava così schizzinoso e austero? Ma tant’è! A lui basta la vanità di una riuscita apparente e di una brillante e rapida carriera. È così purtroppo ed è inutile che tenti ancora di illudermi. E per la nostra grande politica, che cosa dice lui, che sembrava patriota così ardente? Con cinica superficialità ha tratteggiato i progetti per il nuovo ordine dei Balcani. La Bulgaria vuole intervenire a nostro favore, ma con nostro sommo disdoro si atteggia a nostra paladina, dice che vuole salvarci ma desidera la Macedonia. La Russia? No, la Russia non vuole Salonicco, si accontenta di Varna. “Ma – ho fatto osservare timidamente - Varna non sta nella Bulgaria? E per arrivare dalla Russia alla Bulgaria non bisogna passare per la Romania? “Infatti si risolverà con un corridoio”. “Il corridoio polacco!” ho esclamato con vibrante ironia. “Già – ha aggiunto con noncuranza - e così da qui a 20 anni faremo una nuova guerra”. L’ho guardato disgustata. Con questa cinica malafede si apprestano a creare il loro geniale ordine nuovo! E hanno detto tanto male di Versaglia, di questo trattato, in cui gli errori furono compiuti in parte per ignoranza, in parte per ingenua fiducia di poter soddisfare il patriottismo di tutti i nuclei nazionali europei e in parte anche per quella nobile anche se assurda aspirazione di una futura unità per l’Europa confederata.
Con abile tattica cercava di evitare l’argomento spinoso: non voleva annunciare il suo fidanzamento, ma soprattutto non voleva confessare che sposava una tedesca. Ma Annie, con la sua ingenua maliziosa insistenza, l’ha costretto inesorabilmente a parlare. Egli ha detto quasi fra i denti: “è a Berlino purtroppo”. Io lo sapevo, aspettavo che lo dicesse, eppure ho sentito la notizia come un colpo malvagio e vile che mi venisse vibrato alle spalle e ho sussultato. Ha osservato: “Non ve lo aspettavate, vero?” io allora ho mormorato: “ No davvero non me lo aspettavo... da lei!” i nostri occhi si sono incontrati, per l’ultima volta certo, ed i suoi erano così tristi e come umiliati, mentre il suo viso arrossiva di confusione! Di fronte al mio sguardo diritto la sua anima si è vergognata. Perché? Non la ama dunque? Chissà, forse anche il suo è un matrimonio di convenienza. E questo soprattutto è desolatamente triste.
Domenica sera
Ho visto Grazia oggi. Mi ha aiutato come al solito in questo momento così doloroso, mi ha aiutata senza dirmi niente, lasciandomi parlare. E così io ho visto chiaro dentro di me. Mi è sembrata lei pure come colpita da una nuova delusione. E così anche l’ultimo filo che mi legava a tutta questa vecchia e marcita struttura fascista si è spezzato. Era un filo sottile è vero ma ancora tanto resistente. Egli era uno di loro: ed io non riuscivo a disprezzarli completamente, a distaccarmi interamente da loro, finché lo amavo. Ma adesso tutto si è come placato. Credo che il mio odio e il mio disprezzo sarà adesso meno spasmodico e impetuoso ma più profondo e fatale. Tutto dunque si è delimitato in due frontiere ben distinte e non si prova più né il dramma dell’incertezza né il tarlo del minimo rimorso. L’equivoco è dissipato.
15 gennaio Orvieto
Stasera abbiamo preso una radio clandestina italiana: trasmette notizie di propaganda antifascista; introduce la trasmissione al canto dell’inno di Garibaldi e poi aggiunge: “ Parla radio Italia”. Sono parole terribilmente emozionanti: eravamo tutti, io specialmente, eccitatissimi. Noi avevamo come paura di credere alla verità di quanto accadeva. Dunque i nostri giovani sono stati capaci di riscuotersi? Dunque si sono organizzati? E hanno avuto l’audacia di lanciare la loro sfida direttamente sul viso degli oppressori? Sarebbe stato bello! E perciò abbiamo dubitato. Forse si tratta di propaganda inglese, forse sono italiani fuoriusciti che trasmettono direttamente dall’estero e forse sono spie qualunque prezzolate dall’Inghilterra e dall’Italia. Eppure vi è qualcosa nelle loro voci fresche ed energiche che sembra leale, vi è un’insistenza accurata di scandire le loro parole, come per imprimerle nel cuore degli ascoltatori, che dice la difficoltà dell’impresa e l’energia risoluta di volerla superare. E vi è una così nobile dolorosa verità nelle cose che dicono, una compostezza così austera e consapevole, che escluderebbe la venalità e il mestiere. Però... la propaganda inglese è così abile; non bisogna lasciarsi illudere. Potrebbe essere da parte nostra puerile e superficiale prestarsi al gioco di un nemico abile ed acuto nello sfruttare il nostro sentimentalismo e il nostro stato d’animo.
17 gennaio.
Ho sentito di nuovo la trasmissione clandestina. Il fratello della padrona di casa ed io eravamo sospesi in ascolto, cercando di scoprire il segreto, di strappare la verità dal più piccolo indizio. Non c’è niente di concreto che ci possa persuadere o no, ma il desiderio che corrisponda alla verità quello che essi dicono diviene sempre più assillante e prepotente. Vogliamo che sia vero. Sarebbe la salvezza. Oggi erano tre voci completamente nuove: con quelle dell’altra sera divengono cinque. Ciascuno ha un carattere ed un incarico distinti, sembrano consapevoli del modo in cui si vive in Italia adesso, non per sentito dire ma per esperienza diretta.
Non appaiono avventurieri né incaricati o prezzolati: sembrano raccolti e commossi per ciò che fanno, giovani ma non inesperti, e comunque appaiono persuasi. E poi questa nostra spasmodica volontà che sia proprio vero il magnifico tentativo, questo nostro volerci persuadere a tutti i costi che essi ci sono realmente e che non sono fantasmi e mistificatori non vuol dire forse che è necessario ormai che essi ci siano, che è venuta l’ora di agire, non più soltanto di protestare?
21 gennaio
Abbiamo di nuovo tentato di prendere la trasmissione dei “nostri ragazzi”, così li chiamiamo con affetto, come se li conoscessimo. Da più giorni non si riesce ad ascoltarli continuamente: la loro voce si affaccia vigorosa all’apparecchio, il canto si espande, le prime notizie si scandiscono chiare e precise, poi tutto diventa evanescente, la loro voce si allontana, viene come sommersa da un frastuono furioso di mare in burrasca, si sentono lontani e inafferrabili, si sperdono, svaniscono. Questo inconveniente che ci irrita e ci agita sembra quasi una conferma della loro realtà di cospiratori: devono avere un apparecchio trasmittente poco buono, non devono essere esperti in questo strano lavorio di radiotrasmissione. Londra si sente chiara e sicura, disturbata solo dai tentativi di inframmettenza della censura fascista. Se “i ragazzi” fossero esponenti di Londra, se stessero all’estero la trasmissione sarebbe più curata e non svanirebbe nel momento più sensazionale. Trasmettono notizie gravi, molto importanti (Ciano si sarebbe dimesso, un ordine segreto del Duce imporrebbe di bombardare il Vaticano agli apparecchi italiani dopo il primissimo tentativo inglese di bombardare Roma e così via), vogliono evidentemente farsi vedere bene informati. Ma intanto le notizie non appaiono confermate:
Ciano ha preso parte al colloquio con Hitler e Mussolini. Chissà per quale ingenuo zelo vogliono far credere di avere informatori sicuri di notizie gravissime? Forse avranno adepti tra l’esercito e la diplomazia o forse le notizie sono errate perché le accettano senza avere la possibilità di controllarle? Staremo a vedere se saranno confermate dai fatti. Ad ogni modo questa loro irruenza ed imprudenza non mi sembra di marca inglese. Ma chissà?
Intanto il fratello della padrona di casa parla di ciò con i suoi amici del circolo; tutti sono alla caccia della “loro” parola la sera, tutti fremono nel sentirli svanire. Io di mio a scuola spiego le cospirazioni italiane del risorgimento con una veemente profonda eccitazione: a mala pena mi sono trattenuta, nel parlare della propaganda, dal lasciarmi sfuggire la parola radiotrasmissione. Mi è venuto da ridere in classe a sentirmi parlare: le due ansie si accostano, le due lotte si identificano, i nemici si confondono e allora quella storia, ormai un po’ vecchia, diviene stranamente attuale e viva e le ragazze ascoltano affascinate e stupite. Con il fratello della padrona di casa ci guardiamo negli occhi ansiosi di persuaderci che è vero e ci confessiamo senza parlare che anche noi vorremmo agire e ci promettiamo tacitamente che qualora ne sapessimo di più ce lo comunicheremmo. E gli altri membri della famiglia chiudono porte e finestre e stentano a frenare la loro paura. Certo che, se fosse propaganda inglese, sarebbe davvero ben riuscita. Ma accidenti! Sarebbe la volta che li odierei i miei amati inglesi se ci avessero giocato questo tiro. Sarebbe troppo crudele!
28 gennaio
Sempre più chiara si delinea l’agitazione e il disagio fra le persone che mi circondano. L’Italia si tormenta affannosa. I giornali americani pubblicano notizie di rivolte sanguinose e Milano, Torino e Verona sedate da truppe fasciste e tedesche. Forse è frutto di propaganda. Forse sono false notizie sparse dall’estero. Sarebbe troppo bello se fosse veramente così! Io, osservando le persone che mi circondano, noto solamente una grande prostrazione ed un completo disorientamento. Queste persone avevano da troppo tempo abdicato alla propria volontà d’azione, avevano con troppa leggerezza creduto che il fardello della propria responsabilità si potesse cedere ad altri, con incoerenza stupefacente erano persuase che si trattasse di una lotta facile e rapidissima. Adesso sembrano come ridestarsi da un lungo letargo: si guardano attorno ancora intorpiditi dal sonno e dall’inerzia e attendono chissà quale miracolo in modo che le cose si risolvano da sole. A metterle di fronte alla realtà con energia e con passione si prova quasi rimorso, come a esercitare una violenza su organismi troppo deboli e come atrofizzati. Alcuni si sottraggono lamentosamente all’esperienza nuova di pensare, altri sorridono con benevole superiorità di fronte a questo nostro “entusiasmo giovanile”; così lo chiamano indulgenti, facendo capire blandamente che lo giudicano fanatismo. Ma comunque sono delusi e terribilmente sfiduciati: inerti e incapaci di irrigidimento o di ribellione, resistono per inerzia. A volte mi domando a che cosa potrà condurci questa nostra involontaria resistenza passiva. Si rimane in una posizione assurda finché non si riesce a capire come si possa uscirne. Anche le bambine cominciano a venir fuori dal loro letargo di indifferenza nei confronti della guerra: non so se inavvertitamente ho loro comunicato questa mia passione o se i disastri che comunque giungono alle loro orecchie abbiano eccitato la loro sensibilità. E istintivamente si rivolgono a me per sfogarsi. Mi domandano ansiosamente come mai i nostri soldati in Africa sono lasciati come abbandonati al loro destino, vogliono sapere per quale ragione si è tanto decantata l’esclusiva padronanza del “mare nostrum”, quando esso costituisce ormai per noi niente altro che una prigione. Io mi limito a dar loro la sensazione palpitante dell’inumanità della lotta che stiamo combattendo e a far loro comprendere la potenza del nemico che abbiamo di fronte. Ma temo che molte cose trapelino, malgrado le mie buone intenzioni di prudenza e moderazione. E la sensibilità delle bambine è capace di captare a distanza le più sottili radiazioni. Ho ottenuto una cosa concreta: tutte sono tenacemente, irresistibilmente anti-germaniche: è come un istinto naturale che si sia in loro risvegliato rigoglioso. Ma intanto in me si agita sempre più tormentoso il mio esterno insanabile contrasto. Ascolto con passione sempre decrescente la propaganda antifascista dei nostri rivoluzionari clandestini. Sono piuttosto spoetizzata nei loro confronti: non devono essere italiani d’Italia. Temo terribilmente che siano fuorusciti a servizio dell’organizzazione di propaganda inglese, forse in realtà saranno sovvenzionati, e allora non mi interessano più. Soltanto una cosa continua a farmi fremere di entusiasmo e di desiderio: l’inno di Garibaldi, che cantano tanto bene. Ma chissà che non sia però un disco? Del resto ciò che essi dicono mi pone di fronte a un terribile bivio, che sembra insolubile: o continuare a combattere per una vittoria che sarà fascista e soprattutto germanica oppure sabotare la guerra e farla vincere al più presto possibile all’Inghilterra. Non vi è una via di mezzo, almeno così sembra; eppure io non riesco ad accettare nessuna delle due possibilità. La prima ipotesi mi sembra una mostruosa bestialità, la seconda una vigliaccheria. E allora mi viene in mente un orribile fastidioso pensiero. L’Italia si sta straziando in una dimensione sempre più profonda: una parte dei suoi figli attende pazientemente che la Germania con la sua inflessibile disciplina spazzi via i detriti putrescenti del sudiciume fascista (le parole ciniche ma quasi lucide del prof. D. G. l’altra sera); un’altra parte degli italiani attende ansiosa, rodendo il freno che l’Inghilterra giunga con la sua vittoria per aiutarla a liberarsi (le parole inflessibili con cui il fratello della mia padrona di casa cerca di mettermi con le spalle al muro). E allora che vorrebbe dire? Vorrebbe significare che il fascismo dopo avere soffocato la libertà d’Italia con la dittatura di Mussolini ne ha stroncata l’indipendenza con l’asservimento ad Hitler, ne sta ora frantumando l’unità straziandola con l’incertezza. E domani alle bambine dovrò spiegare il pensiero e l’azione di G. Mazzini. È troppo assurdo e mostruoso! Ma ci deve essere qualche cosa, qualche altra cosa di inafferrabile, che a me sfugge poiché sono così debole e smarrita, ma che a qualcuno deve pure apparire; ci deve essere la luce di un’idea risolutiva, che salverà l’Italia, che deve salvare l’Italia.
12 febbraio
È tanto tempo che non scrivo più perché mi sento come prosciugata. L’Italia continua ad esaurire la sua vitalità in una inutile resistenza senza slancio e non si nota il minimo scatto di reazione: tutti sono disgustati, ma nessuno è indignato. Il fascismo è riuscito a compiere il più turpe dei suoi misfatti: ha paralizzato l’energia del nostro popolo e questo appare come stupefatto da un lungo torpore. E intanto i tedeschi continuano a piovere, nonostante il disgusto che ne proviamo. Il basso popolo, la plebe ne è più violentemente indignata. Raccontava D. alcuni episodi avvenuti a Roma. Un fattorino dava il biglietto ad una signora straniera. A questa cadeva uno di quei nostri sudici biglietti da 1 lira: non si chinava a raccoglierlo: il fattorino l’avvertiva e lei sdegnosa: “non lo raccolgo” e passava avanti a sedersi. Il fattorino osservava: “ma questo è uno sfregio!” Un signore le si presentava: “prego, alzatevi” e la conduceva dove aveva lasciato cadere il denaro: “raccoglietelo, ora”. Ella protestava: “Ma io sono tedesca!” e il signore misterioso si rivelava un agente di polizia. “Ragione in più, raccoglietelo”. Ed ella obbediva furiosa, mentre quello l’ammoniva “Per questa volta finisce così”.
Un’altra volta in tram un ufficiale tedesco prendeva altezzoso il biglietto: era in divisa; il fattorino, fremente, bofonchiava tra i denti: “i nostri padroni!”. Egli cortesissimo correggeva: “No, prego, i vostri amici”. Conosceva l’italiano. L’immancabile agente in borghese si avvicinava e prendeva il nome del tranviere. B. ha raccontato indignata questo episodio, disgustata per la maleducazione del popolo di Roma ed ha osservato: “Certo non lo puniranno!”. Ed io invece sento in questa brutale e grossolana loro reazione popolare come una percezione intuitiva della verità, quasi una luce imprecisa di speranza. Sarà forse questa nostra plebe, tanto ingiuriata e disprezzata dai residui fascisti che sarà capace di salvarci? Troverà lei nella sua sana quasi animale vitalità il reattivo capace della purificazione? O non sarà anch’essa ormai contaminata? È però così arrogante ed autonoma, così sdegnosamente sicura dei propri bisogni, quasi conscia della nostra borghese incapacità e fiacchezza! Da qualunque parte venisse la reazione di indipendenza, sarebbe benedetta e salutare e l’accoglierei con gioia anche se dovesse costarmi la rinuncia a questo nostro tradizionale privilegio di raffinatezza. Raffinatezza! Superiorità intellettuale! Vita inquieta e cerebrale! Ideale di libertà dello spirito nella sua costruzione e purificazione! Ricerca di una moralità nutrita di esperienze nuove e personali! Religione purificata da ogni tanfo di sagrestia! Tutte queste mie certezze di fede debbo difendere in questi giorni dall’assalto dell’apatia e della rinuncia che paralizza coloro che mi circondano. E sono felice di aver finalmente trovato qualcuno contro cui lottare. Gli altri erano come molluschi intorpiditi. Ma B. offre una resistenza tenace e irta di bagliori. B. reagisce nel difendere quello che ella chiama l’ordine e l’armonia. Strane parole che non hanno significato in questo tumulto. Ella raccoglie e risolve ogni cosa nella realtà di una vita trascendente, nel mondo eterno promesso dalla religione. Dio è in fondo alla strada che noi percorriamo e ci attende alla meta oppure ci trascina innanzi sicuramente come se fossimo automi da caricare e non creature vive. Egli ci ha dato la sua ricetta; non dobbiamo far altro che applicarla con scrupolosa esattezza e allora l’ordine sarà raggiunto. Ma quale ordine dunque? Quello dell’altro mondo, quello dell’eternità? Ma quello è già stato creato ab aeterno e noi, poveri uomini, non vi dobbiamo partecipare. Anzi questo nostro travaglio serve quasi come elegante cornice a questo bel quadro, questo bel quadro statico e perfetto, senza significato. È strano come io divenga ardentemente religiosa a contatto con le persone atee e quasi miscredente e un po’ eretica presso i religiosi. “Per la tua mania di contrasto e confusione” protesta M. E forse è vero. Ma pure no! Quando io penso che di fronte alla religione eroica e geniale di Grazia io provo sempre lo slancio della fede e la dolcezza dell’umiltà, non posso onestamente ammettere che la mia sia mania di contrasto. È forse perché la loro torpida religione mi appare spesso come un’accomodante vigliaccheria e come una profanazione. È così: costoro che vogliono conciliare, che vogliono star tranquilli e sereni mentre il mondo è in subbuglio per causa loro, costoro eccitano la mia rivolta. Perché non vogliono lottare? Perché non vogliono vedere? Perché hanno paura. Sanno che inconsapevolmente con la loro leggerezza o con la loro cieca accettazione hanno scavato un abisso e adesso non hanno il coraggio di contemplarlo né tantomeno di colmarlo. E adesso si bendano gli occhi per non guardare, si tirano gli orecchi per non ascoltarci. Ma io sento di essere inesorabile. Non posso lasciarli dormire né riposare: ho bisogno di scuoterli e di risvegliarli. Voglio vederli in piedi e all’erta, anche se questo deve recar loro sofferenza e disappunto: che le difendano le loro idee sbiadite e senza colore, magari se non altro, contro di me.
Ma B. vuole riposare. Deve aver avuto qualche suo grave dolore, qualche scossa forte che l’ha fatta rabbrividire di spavento. E perciò ha paura di riprendere la lotta. Ecco perché a volte provo quasi rimorso come se le facessi male. Eppure non posso impedirmi di esprimere la mia verità, quella verità in cui io credo. Ed è lei che viene a cercarla, spontaneamente, come se, malgrado tutto, questa mia “caotica confusione” stimolasse in lei un bisogno di chiarimento per quel suo povero ordine antico polveroso di luoghi comuni.
15 febbraio
Come una frattura ha sgretolato questa recente intimità con la mia nuova amica. Amica? Non so, c’è qualcosa di inafferrabile che inavvertitamente ci divide, ma questo quasi nulla a me sembra inesorabile. Però ho avuto compassione di lei questa mattina. Era come ansimante per una paura nuova che io le avessi messo nel cuore. Si è ribellata rimproverandomi, mi ha pregata che non la tormentassi. Ed io ho capito fin troppo bene di che cosa si trattava: la sua coscienza già travagliata da mille inutili dubbi, adesso aveva assunto un equilibrio che a lei sembrava stabile e duraturo. E invece si andava arrugginendo nell’inerzia. Ma io avevo tentato di farglielo rimettere in movimento con troppa brusca precipitazione. E ne ha ricevuto dolore vivo e straziante come per una contorsione di muscoli e tendini assuefatti ad altra posizione non importa se deformante. Ne ho avuto compassione, ma non rimorso. E gliel’ho detto; ma poi una premura di toglierle tutto quel male, a cui non era preparata, mi ha spinta a tenderle la mano per aiutarla. Tornasse pure nella sua statica posizione deformante, purché non soffrisse così! E allora le ho promesso di non parlarle più di quelle cose crudeli, che ella non poteva sostenere. E mentre le facevo questa promessa, portavo dentro di me come una punta di pentimento, uno stimolo di rimprovero per questa mia nuova, involontaria vigliaccheria. E mi è venuta così forte l’immagine della mia patria, straziata e deformata, tutta contratta dal terrore di un più grande male, incapace da sola a liberarsi da questa paralisi di sbigottimento, supplichevole verso di noi perché le risparmiano la tortura di metterle dinanzi lo specchio della sua coscienza, perché non le facciano vedere il volto energico e sdegnato della giustizia. Così noi non resistiamo alla sua pena e cerchiamo di risparmiarla. Con questa nostra debole compassione finiamo forse col rovinarla? Oppure Dio comprenderà la nostra ripugnanza a lacerarla di più aspro dolore e accorrerà lui direttamente a soccorrerla? Non so: è certo però che non si può non provare l’istinto della misericordia di fronte alla sua sofferenza, e ricordo Cristo disse una volta che è nostro dovere essere misericordiosi.
23 febbraio
Oggi colui ha parlato con la sua disgustosa voce, come arrochita. L’ho sentito abbaiare dal mio letto, attraverso la radio, e a stento l’ho riconosciuto. Il suo discorso è schizzato fuori improvviso, come fa sempre in questi momenti. Non avvisa pubblicamente tali sue intenzioni, perché ha ormai paura del popolo italiano: ha parlato in un luogo chiuso, ben protetto dall’esterno, circondato dai suoi sgherri immondi, dopo avere dato vaghe istruzioni di una qualunque riunione dei gerarchi al teatro Adriano. Ha paura della folla e soprattutto della folla libera, quella che una volta stimolava la sua istrionica compiacenza di successo piazzaiolo. Ha vomitato le sue accuse indegne e bugiarde su tutti i più nobili e sventurati esponenti di questa infelice nazione italiana: l’esercito, gli intellettuali, gli aristocratici, i patrioti, i monarchici non sono stati risparmiati. Ci ha detto che ci ha trascinati nella più ampia e acerba e insensata delle guerre non per un ideale di patria o per un motivo purificatore, ma soltanto perché la storia gli era saltata alla gola e lui ne era stato travolto. Ha detto che la guerra è un delitto, ma ci ha assicurato che lui da venti anni si stava preparando a compiere questo delitto, anzi da venti anni ci teneva sommersi nel clima rovente di tale assassinio premeditato di popoli. Ha insultato l’avversario perché si è ribellato a fare la vittima sottomessa, ma è rimasto eretto sul campo di battaglia, imponendogli una lotta che egli non aveva mai pensato di dover affrontare. Ha concluso con un triplice grido senza senso comune: vittoria, mentre i nostri eserciti sono battuti irrevocabilmente su tutti i fronti; Italia, mentre i tedeschi scendono sempre più numerosi ad invadere il nostro paese; pace con giustizia per tutti i popoli, mentre tutte le nazioni europee sono oppresse e calpestate dal tallone germanico, che rende irriconoscibile perfino i lineamenti della loro fisionomia. Mia mamma ascoltava indignata a fremente le sue parole e gridava di ribellione come se fosse impazzita; io sentivo l’impulso di sputare sull’apparecchio della radio.
Poi sono uscita per partire e ho visto la città tappezzata di manifesti minatori contro i mormoratori e gli ascoltatori di radio straniere. La gente fissava tranquilla, si soffermava a leggere, poi sorrideva ironica; alcune signore commentavano sarcastiche e sdegnose: i loro mariti, un po’ impauriti, si guardavano attorno sospettosi e poi sorridevano a fior di labbro con aria di divertita superiorità. È strano osservare come in questi momenti gli uomini siano più timidi e spaventati, come siano più prudenti delle loro donne. Chissà perché?
Ma a proposito degli ascoltatori di radio straniere, ricordo l’altra sera al cinema; si proiettava il film “Quattro in Paradiso”, un graziosissimo film americano di puro stile anglosassone. Il pubblico si divertiva un mondo. A un certo punto un vecchio servitore inglesissimo, tipo Halifax, ha detto con tono risoluto: “Buonasera”. Uno degli spettatori ha osservato ad alta voce: “Il colonnello Stevens!”. E il pubblico ha riso divertito: lo avevamo riconosciuto tutti, dunque lo conoscevamo tutti.
Ma questa sera, in una latteria, ho avuto la dimostrazione più spontanea del “formidabile effetto” suscitato dal discorso del nostro duce. Eravamo in una saletta appartata, distinti in vari tavolini, circa una diecina di persone: non ci conoscevamo nessuno. È giunto un gerarca in impeccabile uniforme: usciva evidentemente proprio allora dal loro “gran rapporto”. Era in compagnia di una di quelle disgraziate miserabili donne, tipo molto corrente. Ha consumato il suo cioccolato tutto compunto, poi si è allontanato con passo solenne e altezzoso, il ventre prominente, il passo goffamente rimbalzante, l’espressione assorta e sufficiente, proprio come il suo degno padrone. Poi lo abbiamo seguito con sguardi ironici e poi gli abbiamo riso alle spalle senza ritegno, mentre il signore del tavolo vicino osservava ad alta voce, con disgusto sarcastico: “Come fanno bene la guerra loro!”. E tutti ci siamo scambiati sguardi di comprensione.
giovedì 27 marzo
Il mondo si è raddrizzato. È come se l’ossessione di un incubo sia scomparsa. I piccoli popoli risollevano la testa con decisione vivace e si rifiutano a curvare la schiena. Il giovanetto principe di Jugoslavia [ha scosso l’infamia della tutela] ed ha afferrato le redini del suo stato. Il popolo si ribellava contro la sopraffazione tedesca ed egli ha ascoltato la voce del suo popolo ed ha sfidato la Germania. Vale la pena in quegli stati di essere sudditi di un re! La corona per tali sovrani non è un carico, né una decorazione. è un impegno d’onore che li consacra di fronte ai sudditi: i re hanno il dovere di sentire l’anima dei loro popoli, altrimenti non vi è giustificazione per la loro sovranità. Ed ecco che quella sera, quando palpitante ho ascoltato la notizia stupenda da radio Londra, ho sentito sussultare in me il possente desiderio che urgeva in noi in quella primavera lontana del 1940. Quante tombe e quante delusioni ci dividono da quei giorni tormentosi! Con lucidezza spasimante noi vedevamo allora quello che avrebbe dovuto fare il nostro re. Strappare di mano ai parassiti fascisti il potere usurpato, affidare alla dittatura militare le redini dello stato, ascoltare la voce del popolo italiano che avrebbe voluto sollevare i popoli europei ripetutamente straziati dalla Germania e umiliare con la propria protezione la presunzione francese e strappare di mano all’Inghilterra la gloria esclusiva della liberazione dei popoli. Tutto sarebbe stato facile in tale modo: la posizione diplomatica chiara e leale, poiché veniva sconosciuta la politica assurda e disonesta di un governo immorale; la posizione strategica facilmente sostenibile con un unico fronte alpino in cui si era padroni delle posizioni elevate; l’anima del popolo liberata dalla paralisi di cieco fatalismo che la corrompeva, e l’azione facile, istintiva, concorde, perché corrispondente al genio impulsivo del popolo. Come sarebbe stata facile allora la propaganda! Noi stessi l’avremmo sostenuta con spontaneità sincera e impetuosa, nelle piazze, nelle scuole, nella famiglia, dai pulpiti, sui campi di battaglia, nelle officine, con quello stesso ardore e fanatismo che ci spinge oggi a bisbigliare di nascosto, ad ingannare sospettosi, a diffidare gli uni degli altri, quando in sostanza tutti vogliamo dire la stessa cosa. E non sarebbe stato necessario pagarli gli agenti di propaganda ed istruirli ad assurde pedanterie contraddittorie, né minacciarli e punirli per incomprensione o incompetenza. Noi avremmo lavorato gratuitamente e vigorosamente, poiché sentivamo da soli le cose che si dovevamo dire; e i nostri ragazzi sarebbero morti gioiosamente, poiché avrebbero sentito di morire per un ideale luminoso. La Germania ci avrebbe martoriato con i suoi bombardamenti; ma che cosa sarebbe stato il dolore fisico e la morte, di fronte a questa umiliazione di vederseli sprezzanti e compiacenti a casa nostra, persuasi di offrirci il loro aiuto odioso e non desiderato come l’ultima ancora di salvezza? Combattendo ancora contro i tedeschi noi saremmo stati fedeli alla nostra storia, a tutta la tradizione dello spirito nazionale, alla nostra fede religiosa, al nostro istinto fisico di razza, al nostro genio, alla nostra passione. E allora forse saremmo veramente stati i padroni di Europa. La Francia moribonda e l’Inghilterra ancora disorganizzata avrebbero dovuto riconoscere solamente da noi questa volta la loro salvezza e la Russia sarebbe rimasta paralizzata nella sua immensità, poiché tutta la sua astuta, felina precauzione sarebbe rimasta abbagliata e schiacciata dal balzo impetuoso ed agilissimo della nostra rigenerata vitalità. E così forse avremmo potuto anche avere quel famoso impero spirituale tanto agognato dai fascisti e padronanza del Mediterraneo e soddisfazione alla nostra arroganza giovanile. Ma questo forse sarebbe stato troppo bello e noi non l’avevamo meritato: i frutti dell’asservimento e della viltà non possono essere succosi né fecondi, ma amari, acidi e aridi. Poi dobbiamo sopportare un’espiazione dura e umiliante, perché poi possiamo risollevarci alla luce. Dio è giusto con quelli che vuole salvare.
Ma quale sarà mai la nostra salvezza? Questa strada di liberazione che noi dobbiamo ricostruirci è ancora avvolta nel buio più sconcertante del suo profondo mistero.
In quei giorni lontani io alzai alta e sicura la mia voce con una fede che fu detta incoscienza, fui sull’orlo della rovina, eppure, non si sa come, io fui salvata per l’intervento stesso di quelle persone che, legate al fascismo, sentivano ripugnanza della sua bestialità. Se essi fossero stati sicuri e forti mi avrebbero schiacciata e invece non hanno osato colpirmi. Chissà perché? Io allora rimasi esitante e sentii quasi la circospezione di una perplessità. Poi tutto fu travolto dagli avvenimenti ed ora, più impetuosa e travolgente, io sento la sicurezza del mio odio e della ribellione. Per quale scopo? Ci deve pur essere una ragione a tutta questa assurdità, ci sarà certamente una soluzione a questo groviglio. Ma questa nostra inerzia in tanto trambusto è veramente sfibrante!
Sabato Santo, 12 aprile
E così, a quanto pare, i miracoli non avvengono più. È inutile che i piccoli popoli tentino di essere coraggiosi, è inutile che l’Inghilterra prodighi tutta la sua forza a loro difesa. L’artiglio di Hitler li ghermisce lo stesso, poiché è più vicino, più rapace, più temprato. E si vedono tutte queste debolezze eroiche contorcersi impotenti in uno spasimo di agonia. E già si avverte il respiro affannato dell’Inghilterra che fatica nello sforzo improbo e sovrumano. Viene quasi da credere alla leggenda del popolino: Hitler è l’anticristo che fa miracoli prima della distruzione del mondo. Ma a me torna in mente la loro leggenda germanica: Faust onnipotente e felice in terra poiché ha venduto l’anima sua al demonio: è quasi simbolico. Ma il raccapricciante è che la loro felicità non è soltanto dannazione per loro, ma rovina e disperazione per tutti gli uomini. Si sente di nuovo l’onda di incalzante terrore che ci avvolse la primavera passata: queste spaventose primavere che segnano il dilagare inesorabile dell’ondata germanica in Europa, “La primavera in fior mena tedeschi […]”. Carducci, se tu vedessi la tua patria aggiogata al carro trionfale germanico mentre si dissangua dei suoi migliori figli e si impoverisce delle sue colonie tanto affannosamente conquistate! Ho sentito il rossore della vergogna e la vertigine della nausea nell’ascoltare i canti trionfali delle alunne in quel miserabile collegio della Gil. Comandanti, istruttrici e collegiali, tutte esultavano, come invasate di gioia, in quel mostruoso lunedì in cui cadeva Addis Abeba: esultavano poiché i tedeschi avevano bombardato con brutale accanimento Belgrado e la Jugoslavia; e ieri l’altro, quando il bollettino italiano annunciava la resa di Massaua, ancora esultavano le loro voci dissennate, poiché i tedeschi avevano occupato Salonicco. Questa pioggia germanica sui Balcani, quella loro presa di possesso in Cirenaica vengono salutate dalla nostra propaganda come vittoriose conquiste e non ci si rende conto che adesso davvero noi saremo definitivamente e inesorabilmente imprigionati nel nostro mare interno: e intanto le mie alunne cantano l’inno del “Mediterraneo”, ed io non posso farle tacere! Ma i miei colleghi di insegnamento, i professori che sono colti e conoscono il movimento fatale della storia adesso rabbrividiscono. Prima ero io sola e disperata che lottavo contro di loro perché aprissero gli occhi e mi dicevano esaltata: ora son venuti spontaneamente ad esprimere il loro terrore. D., l’ammiratrice dei tedeschi, disse: “Ormai non c’è più da sperare altro che li tradisca quella famosa piccola molla che ha funzionato sempre male in loro: la rotella del loro orgoglio. Del resto anche nel ’14 hanno sempre vinto, fino al ’18 e poi sono rimasti rovinati”. E la timida, delicata P. mi ha confidato: “Ho letto stamattina il bollettino germanico: mi ha spaventato. È come se noi non esistessimo”.
Pasqua del ’41
Il papa ha parlato: con voce possente e vibrante di energia inesorabile ha bollato la loro malvagità e la nostra doppiezza: ha minacciato loro la maledizione divina e ha detto a noi che la verità ha una sola faccia. Mi sento più serena e come riposata: il papa è con noi, sarà sempre con noi fino alla fine e contro di lui non riusciranno a vincere interamente. Avevo detto a mamma: “Se anche il papa dice che la primavera ha portato il bello, mi faccio mussulmana”. Ma io sono una sciocca, dovevo conoscere il mio papa. Egli ha invece ricordato che, malgrado tutti questi orrori, Cristo risorge anche quest’anno e sempre risorgerà trionfatore; ha confortato i piccoli popoli a cui è stata strappata la patria dicendo loro che la vera patria è il cielo e che rimangano aggrappati alla loro fede; ha parlato della persecuzione religiosa con un tale spasimo di sofferenza come se volesse annunciarla anche a noi. Ed io vorrei che fosse vero: una fiammata di persecuzione ci purificherebbe. Che Dio lo benedica il nostro papa. Egli ha ridonato la pace ai nostri spiriti.
Lunedì dopo Pasqua
Ho conosciuto dai B. quella signora che fa parte della propaganda contro i nostri nemici. Ho provato nello stesso tempo un senso di delusione e di conforto. La loro propaganda mi sembra troppo vaga e teorica, ben poco costruttiva; però sono persone diritte, oneste e semplici, perfettamente normali ed equilibrate: gente di cuore, di ingegno e di cultura, che tenta semplicemente di rimettere in funzione i cervelli dei loro simili paralizzati dall’inerzia o deformati dalla brutalità. Mi ha riconfortato la loro sicurezza. “La nostra unica salvezza sta nella sconfitta dei tedeschi”. “Ma se vincessero?” ho obiettato. “Non devono vincere!” ha risposto. “Che cosa possiamo fare per impedirlo?” ho chiesto. “Niente di molto preciso. Pregare forse, come dice il papa e spiegare la verità”. “Ma come possiamo costringere a vederla coloro che sono in malafede e vogliono continuare ad essere ingannati?” “Non insistere con chi non è degno della nostra propaganda. Costoro sono la massa amorfa, che seguirà dopo le direttive della minoranza intelligente e coraggiosa. Non bisogna sprecar tempo e fiato per loro. Bisogna invece rivolgersi alle persone di buona volontà”. Mi hanno tranquillizzato. Chi parlava era una giovane signora vicina a diventare mamma: suo marito sta al fronte; i fratelli e il padre sono professori: tutti sono uniti e lavorano, ciascuno nel suo campo, per la nostra causa. Non so se combineranno molto, anzi mi sembra poco probabile. Tuttavia le loro parole mi hanno dato fiducia: sono persone equilibrate e normalissime, sane e, in un certo senso, comuni. Questo mi ha tranquillizzato. Troppo spesso adesso sono assalita dal dubbio che questa mia passione sia un fenomeno della mia sensibilità di ragazza esaltata ed infelice: ho paura che vi sia dentro un inavvertito disguido psichico mio personale. Poiché tutti gli altri mi sembrano dissennati, non sarò forse io ad aver perduto la ragione? Ma quando vedo queste altre persone chiare e serene, sicure e decise, mi sento riconfortata: il mio impulso dunque è diritto e sano e non devo lasciarmi turbare da dubbi inconsistenti. Pare che abbiano a capo del movimento un prof. molto intelligente, alunno di B. P.; molti sacerdoti cominciano ad aderirvi; come primo sistema di propaganda si divulgano le traduzioni dei libri tedeschi contenenti la critica e la illustrazione del vero programma politico-morale di Hitler: bisognerebbe diffondere questa conoscenza anche nel popolo dei lavoratori minuti: pare che abbiano già fatto qualcosa in questo senso. Staremo a vedere. Che il Signore aiuti l’opera nostra!
STORIELLE
Un operaio disoccupato scrive a Lui ed ottiene un posto a 13 L. al giorno: pagamento settimanale. Alla fine della settimana riceve 28 L. Protesta. Chiede ragione al direttore di fabbrica che per persuaderlo gli fa la moltiplicazione delle giornate: 13x7= 7X1=7, 7X3=21 +7 = 28.
Non convinto va dal federale che vuol convincerlo con la divisione 28.7; 7 in 8 1 volta, avanza 1, abbasso il 2, 7 in 21 3 volte = 13.
Disperato va da D. che pazientemente fa l’addizione in colonna.
13+
13+
13+
13+
13+
13+
13+
------
21+
7
-----
28
Non c’è più niente da fare che incassare le 28 L. o fare silenzio.
Un operaio, alla fine della I settimana, incassa L. 2,50 invece di 150 che gli spettavano. Gli viene spiegato che il resto gli è stato trattenuto nelle varie assicurazioni, tessere ecc. Triste, triste, torna a casa e, per far miglior figura, vuol comprare con le L. 2,50 un po’ di carne lessa. Il commesso involta il tutto in un giornale, con la fotografia grandissima del D. che fa un discorso a bocca aperta. “Fermo, fermo – grida l’operaio – volta pagina, altrimenti mi divora anche la carne lessa!”.
_______________________
H. in visita a Roma. D. vanta la fedeltà ed amore e spirito di sacrificio del suo popolo “che ucciderebbe a un mio comando”. “Ma va!” “Vedrai”. Si
affaccia al balcone, invoca la folla, che unanime si offre. Chiama uno dalla folla: un giovane si precipita con slancio. “Vuoi morire per me; buttati dal balcone”. Rapidissimo si getta a capofitto. H. stupito. D. soddisfatto promette un altro esempio. E viene un altro giovane. Mentre sta per gettarsi di sotto. H. lo trattiene e gli domanda: “Come mai getti via senza riflettere la vita che ti si presenta così promettente” “E la chiami vita questa?” protesta il giovane, precipitandosi dal balcone.
_______________________
Un giorno un operaio riceve nella busta della paga L. 150 invece che L. 90. Contentissimo dello sbaglio, corre a casa e le
mostra alla moglie. Questa stupita gli domanda se ha fatto straordinari. “No - le risponde – una volta tanto ho incassato le ritenute invece della paga.
_______________________
H. a Roma. Anche il capo della polizia deve far mostra del progresso poliziesco in Italia durante il fascismo. Decide di far sfilare i cani poliziotti. Riesce a farli marciare ben inquadrati e, giunti davanti all’ospite esimio, all’unisono voltano la testa verso di lui. Magnifico effetto: tutti chiedono insistentemente la spiegazione della riuscita. ?? si schermisce inutilmente: preferirebbe conservare il segreto.
Ma, messo alle strette, confessa. Nel momento in cui i cani giungono davanti a H. ha gridato sottovoce: “O vi loc o ‘mariuolo’”.
_______________________
Il federale di Milano chiede al card. Sch. Il permesso di mettere il fascio sul duomo per i restauri apportati negli ultimi tempi. Il card. prima chiede tempo, poi dice che non gli sembra opportuno. L’altro insiste dicendo che aveva ricevuto tale ordine dal suo superiore. Il card. dice allora di dover consultare il pontefice. Dieci giorni dopo il federale torna all’attacco e il card. risponde: “Bene, mettetecela un po’, tanto anche quella è una croce!”
M. e Ciano discutono dal balcone di piazza Venezia se è più bella via dell’Impero o via dei Trionfi.
? [sic]
Altra storiella: ci hanno confortato stasera (11 dic.) dal grande scoraggiamento per le nostre sconfitte.
Dopo aver escogitato la geniale tassa del 2% su tutti gli acquisti, Mussolini vuol conoscere il parere dell’uomo della strada sulla politica finanziaria fascista. Quegli domanda la possibilità di spiegarsi con un esempio e chiede ai gerarchi radunati: “Un soldo per cortesia”. Tutti si affrettano ad accontentarlo. Poi aggiunge: “due soldi da ciascuno, prego”. È rapidamente soddisfatto. Quindi: “permettete, una lira”. I gerarchi lo soddisfano con una
certa lentezza un po’ sospettosa. “Ed ora cinque lire da ciascuno”. Quelli pagano guardandolo furiosi e indignati. “Ancora 10 lire a persona”. Ma quelli esplodono all’unisono: “Ora basta, ci hai proprio seccati”. (Veramente la frase è più grossolana: i fascisti, si sa, non sono molto raffinati). l’uomo della strada sorride, si toglie il cappello, saluta e si allontana soddisfatto. Ha spiegato quello che c’era da chiarire.
_______________________
Uno strano tipo passeggia irrequieto sotto il balcone di piazza Venezia, stringendo dietro le spalle una solida mazza ferrata e canticchia rabbioso fra i denti la nota canzonetta”Un’ora sola ti vorrei!!”
La schematica atroce intuizione del popolino italiano. Rebus:
MUSSOLINI
HITLER
CHAMBERLAIN
DALADIER
CHI
VINCERA’?
Due sono già morti e gli altri due si stanno rovinando. Il misterioso onnipresente sogghigna attendendo la soluzione dell’indovinello.
_______________________
La via dell’Impero: quella strada che di rovina in rovina dal Colosseo conduce a Piazza Venezia.
_______________________
La barzelletta sulle barzellette. È un commesso viaggiatore che diffonde le barzellette durante i suoi interminabili viaggi. Ma un giorno incontra lo spione, che riferisce
al D. Questo, incuriosito, vuole conoscerlo e ammonirlo lui stesso. Gli fa notare: “è inutile che cerchi di minare la mia potenza. Tanto dalla chioma delle Alpi fino alla punta del tallone e all’apice della Sicilia l’Italia è con me.” E il viaggiatore di rimando: “Questa, Eccellenza, non l’ho detta io”.
_______________________
Una storiella atroce su Ciano. Raccontavano a lui tante barzellette e tutte lo riguardavano. Egli protestò: “Raccontatene almeno una dove io non c’entri”. E di rimando: “Tua moglie è incinta!”.
Si spiega ad un contadino la differenza che passa fra socialismo, comunismo e fascismo. Ci si spiega con un esempio: “Supponiamo che tu possegga 10 vacche ed il tuo vicino nessuna. Secondo il socialista bisogna dividerle in parti uguali: metà per uno: non è giusto che tu sia ricco e lui povero”. Protesta eloquente del contadino: “Non è giusto che mi portino via la roba mia”. Ma il comunismo taglia netto alla discussione. “Tu hai 10 vacche? Il tuo vicino nulla? Ebbene niente proprietà privata. Lo stato le prende tutte e dieci e dà il latte necessario a tutti voi”. Borbottio sospettoso del contadino: “Non mi fido”. “Ma il fascismo, vedi, è tutt’altra cosa. Lui a te le vacche le lascia tutte e dieci. Tu le custodisci, tu le alimenti, tu le proteggi dalle intemperie e dalle
malattie. Egli anzi ti sorveglierà severamente per impedirti ogni trascuratezza”. Sorriso radioso del contadino soddisfatto: “Vuol dire che poi, a mungerle, ci penserà lo stato!”
_______________________
Le ultime storielle attuali sono fiacche e anche poco spiritose: si sente l’avvilimento. Le cose ormai sono serie: non è più possibile scherzare. I due amici mormoratori: “Dì un po’, ce l’hai tu il ritratto di Ciano a casa?” “Io, fossi matto!” “E allora dove sputi?”
_______________________
Nella villa che Mussolini ha fatto costruire alla Camilluccia per la sua conosciutissima amante, si è trovato in questi giorni appeso un grande cartello, con su scritto a caratteri cubitali: “Mistica fascista”.
I due soliti amiconi si incontrano: “Camerata, sai qual è l’ultima barzelletta?”, “?”, “Vincere”
_______________________
Dal Vaticano:
Un gerarca domanda a un cardinale: “Mi sapete dire come fate voi a far riuscire tanto bene le vostre cerimonie, con tanto fasto, con tanta facilità e il popolo accorre abbondantissimo spontaneamente? Noi invece sbraitiamo, mandiamo le cartoline rosse, minacciamo le punizioni e arrivano sempre soltanto i ragazzini delle scuole e i poveri trovati con la pancia grossa e la faccia seccata, tutti impacciati e infagottati nella sahariana di finta lana”. Il cardinale risponde candidamente: “Noi abbiamo preso il nostro corpo e l’abbiamo crocifisso.”
Quest’ultima è la più bella, ma dicono che venga dalla Germania. Accidenti! Neanche più il monopolio delle barzellette ci vogliono lasciare quelle sanguisughe? “Si trovano sopra un aeroplano un francese, un inglese, un italiano, un tedesco. L’aeroplano ha un guasto e comincia a perdere quota: è necessario liberarsi dalla zavorra: buttati i bagagli e tutte le cose superflue, non è sufficiente: bisogna che uno si salvi per il bene degli altri. Il francese generosamente si offre e al grido “Vive la France” si getta giù a capofitto. Ma non basta ancora. L’inglese allora cavallerescamente si fa avanti; mormora con gravità: “God save the king” e si lancia nel vuoto. Ma neanche
questo sacrificio è stato sufficiente. Allora balza in piedi coraggioso e deciso il tedesco. Alza solenne l’invocazione: “Heil, Hitler” e poi afferra l’italiano e lo getta di sotto.
È truce e potrebbe essere significativa. Ma io voglio finirla a modo mio. L’aeroplano non poteva salvarsi, poiché aveva il meccanismo irrimediabilmente guasto (neanche l’ultimo alleggerimento poteva riequilibrarlo) e poi il tedesco con la sua ultima brutalità ha dato il crollo finale: e l’aeroplano è precipitato al suolo sfracellandosi con il suo ultimo superstite. Ma i tre, che si erano sacrificati, erano forniti di paracadute e, giunti a terra, si sono rincontrati insieme e si sono stretti la mano. W l’ottimismo!
Hitler, Mussolini e Churchill vogliono sapere chi vincerà la guerra. Perciò vanno da S. Pietro. Questi risponde: “Io lo so, ma come segretario del Padre Eterno, non posso tradire il segreto. Però voglio darvi un suggerimento. Vedete quella grande tasca con quell’unico pesciolino rosso. Chi di voi riuscirà a prendere il pesciolino sarà il vincitore”. Mussolini, senza por tempo in mezzo, si tuffa nella vasca tutto vestito: fa grande schiamazzo, butta fuori un fiume di acqua ma, accecato dal frastuono, il pesciolino non riesce più neppure a vederlo. Si avanza Hitler con innumerevoli ordigni, prende con scrupolosa esattezza le misure, getta una potentissi
ma bomba con tiro preciso; ma il pesciolino incolume guizza via. Si avanza con elegante compostezza Churchill, si siede tranquillo sul bordo della vasca, cava dal taschino della giacca un cucchiaino d’argento e lentamente con paziente tranquillità si mette a vuotare la vasca. Quando la vasca sarà asciutta, il pesciolino sarà suo.
_______________________
Ancora col pesce!
Un pescatore riesce finalmente a prendere un grosso pesce. Lo porta, ancora vivo e palpitante, alla moglie. “Friggilo”, le dice. “Con che cosa? Non ho olio”. “Cuocilo col burro”. “Non ho burro”. “Adopera il lardo” “Non c’è lardo”. E allora, che cosa ne facciamo di questo bel pesce?” “Ma, guarda, è ancora vivo: buttalo di nuovo a mare, povera bestia; almeno lui potrà campare!”. Il pescatore, triste e avvilito, riporta il pesce dentro al suo mare: quello rimane un po’ stordito, poi dà un guizzo di gioia, riviene a galla, spalanca la bocca e grida, tutto esultante: “Evviva il duce!”
_______________________
La Petacci ha reso padre il nostro duce di due gemelle. Una fu chiamata Vittoria, l’altra Vinceremo. Vittoria, povera bambina, è morta subito. Ma anche Vinceremo si è ammalata di una strana malattia che sembra incurabile: le è rimasto uno strano tic nervoso. Quando il babbo, affettuoso e supplichevole, la chiama: “Vinceremo, Vinceremo” ella scuote la testolina sparuta come a dire ripetutamente di no.
- Numerazione
- Numero:
- 4
- Reference code
- ITA FLLB AA.0001.0002UA.0004UD
Relazioni
Soggetto produttoreAlessandrini, Ada
Fondo di appartenenzaAda Alessandrini
Hai domande su questa scheda archivistica? Se hai notato un dettaglio da approfondire, vuoi segnalare un’informazione mancante o inesatta, oppure desideri entrare in contatto con l’ente conservatore per saperne di più, inviaci la tua segnalazione. Ogni contributo aiuta a migliorare la qualità delle informazioni e a valorizzare il patrimonio archivistico.