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- 1984 - 2007
- Storia istituzionale/Biografia
La Prima e la Seconda posizione
Nelle Br-Pcc vanno via via delineandosi due concezioni, sempre più distanti tra loro, del processo rivoluzionario e dei compiti delle avanguardie, definite Prima e Seconda posizione. Le divergenze riguardano questioni di strategia e di tattica, bilancio del passato e attività futura. A porre le basi di quella che sarà la Seconda posizione è il libro Politica e rivoluzione, scritto nel 1983 da quattro brigatisti prigionieri (Andrea Coi, Prospero Gallinari, Francesco Piccioni, Bruno Seghetti), partendo da una critica serrata delle tesi esposte nella pubblicazione Gocce di sole nella città degli spettri, di Renato Curcio e Alberto Franceschini. Nel novembre 1984 viene diffuso l’opuscolo Brigate rosse Partito comunista combattente, Un’importante battaglia politica nell’avanguardia rivoluzionaria italiana, che riporta lo sviluppo delle due posizioni.
La Prima posizione, maggioritaria, sostiene la tesi propria dell’organizzazione dalla sua nascita, sintetizzabile come «strategia della lotta armata», ovvero la possibilità di dare inizio, anche in un paese imperialista quale l’Italia e in una situazione non rivoluzionaria, a un processo di guerra di classe di lunga durata. Il partito deve sfruttare le contraddizioni che la guerriglia metropolitana apre nello Stato disarticolando i progetti generali della borghesia, accumulare progressivamente forza militare per dare una prospettiva concreta di potere alle masse proletarie e contribuire a creare le condizioni per l’emergere di una situazione rivoluzionaria. L’offensiva finale sarà ristretta nel tempo e sferrata in condizioni oggettive particolari.
Basandosi sulla storia del movimento comunista internazionale, sugli insegnamenti del marxismo e soprattutto del leninismo riguardo alla questione della conquista del potere politico, la Seconda posizione ritiene invece che le Br siano cadute in un eclettismo teorico – con un alternarsi di spontaneismo e militarismo – che ha portato all’adozione in un paese imperialista di schemi rivoluzionari propri dei paesi dipendenti. La teoria maoista della guerra popolare prolungata rimane un riferimento per le rivoluzioni di nuova democrazia e le lotte di liberazione nazionale, mentre in un paese in cui il capitalismo è definitivamente giunto allo stadio monopolistico la guerra rivoluzionaria assume la forma dell’insurrezione. Una guerra aperta, in cui vasti settori di classi contrapposte si confrontano per mezzo delle armi, potrà verificarsi solo nel corso di una situazione rivoluzionaria. Fino a quel momento eccezionale, in cui si realizzerà l’incontro tra le condizioni oggettive e soggettive necessarie per la rivoluzione, il partito deve rappresentare una guida in grado di far crescere la coscienza e l’organizzazione del proletariato attraverso una politica comunista e un’attività centrata in modo essenziale ma non esclusivo sulla lotta armata, considerata un metodo di lotta e non una strategia.
L’esordio dell’Udcc e la morte di Wilma Monaco
Nel marzo 1985 i «dissidenti» (circa un terzo dei brigatisti) sono espulsi dalle Br-Pcc. Nello stesso anno a Parigi, dove alcuni militanti si sono rifugiati, vengono elaborate le tesi di fondazione di una nuova organizzazione, che si basa sull’esperienza delle Brigate rosse e sul marxismo leninismo, con l’obiettivo di giungere a una teoria e una pratica rivoluzionarie adeguate alla situazione. In autunno il Manifesto e tesi di fondazione annuncia: Sotto l’impulso e l’iniziativa di alcuni ex-militanti delle Brigate Rosse fuoriusciti da questa organizzazione in seguito alle loro battaglie per l’adozione delle tesi politiche enunciate nella cosiddetta «seconda posizione», nel mese di ottobre 1985, si è costituita la Unione dei comunisti combattenti.
Alcuni militanti tornano in Italia per organizzare la struttura a partire da Roma. Riescono a far arrivare un piccolo carico di armi dalla Francia e iniziano l’opera di reclutamento. L’Udcc decide di presentarsi pubblicamente con un’azione considerata politicamente gestibile, il ferimento di un personaggio di medio livello vicino a Bettino Craxi. Il 21 febbraio 1986 viene colpito a Roma Antonio Da Empoli, neodirettore del Dipartimento degli Affari economici e sociali di Palazzo Chigi. In qualità di collaboratore del governo Craxi ha svolto un ruolo essenziale nella formulazione della legge finanziaria. Durante l’inchiesta preliminare i militanti non si rendono conto che l’autista è un poliziotto di scorta. L’agente reagisce agli spari colpendo a morte Wilma Monaco, una delle componenti del gruppo di fuoco.
Dopo l’azione, oltre a un lungo volantino, l’Unione diffonde una Autointervista di riflessione. Nei due documenti si rende onore a Wilma Monaco, Roberta, caduta combattendo per il comunismo, il cui sacrificio deve servire a tutto il movimento rivoluzionario per rinsaldare le fila e avanzare più speditamente sulla via di una lotta armata realmente marxista. Si afferma che la lotta rivoluzionaria è risorta in Italia negli anni 1968-’69, sulla base della spinta politica impressa dalle mobilitazioni operaie, proletarie e studentesche. Dopo anni di esclusiva lotta economica, di egemonia revisionista sul proletariato, durante i quali il Pci è divenuto una componente organica del sistema politico rappresentando l’ala sinistra della borghesia, la prospettiva della conquista del potere è ritornata attuale grazie alle Br e al loro uso sistematico della lotta armata.
Nonostante il prezzo pagato con la morte di Wilma, dirigente dell’organizzazione, l’Udcc ritiene che l’azione Da Empoli abbia raggiunto i suoi obiettivi e abbia chiaramente espresso il significato politico di attacco al governo e alla sua politica economica. Si decide quindi di proseguire nella strada intrapresa, nel ricordo dell’indimenticabile figura di «Roberta», della sua umanità e della sua determinazione, adottando la lotta armata come metodo decisivo della politica comunista, verso un partito marxista leninista che guidi la classe sino all’insurrezione, la conquista del potere politico e la dittatura del proletariato.
Nel 1986 l’Italia sta discutendo l’adesione allo Sdi (Strategic defense iniziative), lo «scudo spaziale», un colossale sistema di difesa fra i vari paesi dell’Alleanza atlantica, che non sarà poi realizzato. Da più parti chiamato Guerre stellari, è stato voluto dall’amministrazione Reagan sotto l’influenza delle forze più aggressive e reazionarie dell’imperialismo americano, quel manipolo di grandi compagnie multinazionali affiancate dal Pentagono e da settori della burocrazia statale, per ristabilire il primato politico e militare nel mondo. Attraverso l’ombrello spaziale, oltre che tramite bombardamenti, occupazioni militari, destabilizzazione aperta e occulta di governi legittimi, sabotaggio economico e appoggio a organizzazioni mercenarie, sostegno a regimi reazionari, ridimensionamento dei paesi dell’Est. L’Unione decide di colpire il generale dell’Aeronautica militare Licio Giorgieri, direttore della Sezione costruzione armi e armamenti aeronautici e spaziali. L’azione salta due volte per imprevisti e problemi tecnici. Nel frattempo l’Udcc scrive un nuovo testo di analisi Come uscire dall’emergenza? che viene diffuso in librerie e centri antagonisti di tutta Italia.
Gli arresti e l’uccisione di Giorgieri
Nel gennaio 1987 l’Unione riceve un duro colpo con l’arresto di tre suoi dirigenti, Fabrizio Melorio, Geraldina Colotti e Paolo Cassetta. Gli ultimi due rimangono feriti nel corso del conflitto a fuoco. Licio Giorgieri viene ucciso a Roma il 20 marzo 1987 mentre rientra nella sua abitazione con la macchina di servizio. L’autista rimane illeso. Una parte dei detenuti politici plaude all’azione.
Nel lungo documento di rivendicazione l’Udcc spiega che il generale è stato colpito esclusivamente per le responsabilità da lui esercitate in seguito all’adesione italiana al progetto delle «guerre stellari», che rafforza quell’intreccio di interessi, complicità e connivenze espresso dal complesso militare-industriale. L’organizzazione intende rappresentare su scala nazionale il soggetto politico rivoluzionario che dà «voce politica» e riferimento all’insieme delle forze sociali, a cominciare dalla classe operaia, duramente colpiti dalla svolta reazionaria voluta dalla grande borghesia e realizzata dai governi del Pentapartito. Il protocollo di intesa firmato a Washington nel settembre 1986 consente alle imprese italiane di partecipare alla fase di progettazione dello Sdi. La decisione di aderire, affermano i militanti dell’Unione, viene dai settori più retrivi della grande borghesia e dai vertici delle Forze armate. È stata favorita dalla politica neo-autoritaria del governo Craxi, che ha preparato il terreno per modificazioni della struttura istituzionale in grado di approfondire la svolta reazionaria, a cui il Pci, per ambiguità e inettitudine, è stato «incapace» di opporsi. Si è così creato un vuoto politico che ha reso la classe operaia la «grande assente» della sfera politica nazionale. Solo il Pcc può riempire il vuoto, guidando quello schieramento di forze sociali che si oppone ai governi reazionari, con al centro la classe operaia, verso una trasformazione sociale profonda, partendo dalla conquista rivoluzionaria del potere politico. La lotta armata viene individuata come il metodo di lotta fondamentale che contribuisce al raggiungimento degli obiettivi politici delle avanguardie, permette al Pcc di conquistare lo spazio necessario nella lotta politica per rappresentare l’interesse generale e la capacità dirigente della classe operaia nelle concrete battaglie, non limitandosi alla semplice propaganda, ma pesando sugli equilibri e le alleanze che presiedono alla formazione dei governi e alle scelte di una borghesia succube ai «doveri imperialisti». L’attacco al cuore dello Stato, afferma il documento, non è quindi indirizzato verso astratti progetti di ristrutturazione, ma è la «punta» della politica rivoluzionaria che mette l’iniziativa armata al servizio di obiettivi che contribuiscono a creare un quadro favorevole di rapporti di forza. I comunisti combattenti, afferma l’Udcc, sono interni al fronte contro la militarizzazione dello spazio e all’adesione italiana allo Sdi e considerano l’uscita dalla Nato un obiettivo prioritario. In caso di conflitto si batteranno per trasformare la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria.
La tentata evasione e la chiusura di un ciclo
Nei mesi successivi all’omicidio Giorgieri l’Unione è smantellata dagli arresti effettuati a Roma e in Francia. Per l’Udcc sono inquisite 73 persone. Nel 1987 viene approvata la legge sulla dissociazione, di cui usufruiscono anche figure con un passato di rilievo nelle Brigate rosse quali Alberto Franceschini, Valerio Morucci, Adriana Faranda. Ma è anche l’anno in cui nelle carceri si sviluppa il lacerante dibattito fra i prigionieri sulla soluzione politica.
Intanto alcuni dirigenti dell’Udcc, insieme a brigatisti che in carcere hanno aderito alla Seconda posizione, tentano una laboriosa evasione scavando per mesi, con strumenti rudimentali, un tunnel sotto le loro celle nel carcere di Rebibbia. Fallita la fuga, otto prigionieri (Prospero Gallinari, Pasquale Abatangelo, Paolo Cassetta, Francesco Lo Bianco, Maurizio Locusta, Remo Pancelli, Francesco Piccioni, Bruno Seghetti) inviano un documento alla stampa. Pur non mettendo in discussione le ragioni sociali e storiche della scelta rivoluzionaria, e considerando le Br il soggetto politico che ha trasformato in progetto una tensione sociale al cambiamento rivoluzionario, prendono atto di una sconfitta. Partiamo una volta da un dato che ci riguarda. Oggi, ottobre 1988, le Brigate rosse coincidono di fatto con i prigionieri politici delle Brigate rosse. È una situazione mai verificatasi prima in diciotto anni di attività politica. […] La rottura della continuità organizzativa e dell’attività combattente delle Br costituiscono un elemento che di fatto modifica il quadro generale di uno scontro politico influenzato in misura variabile nell’arco di vent’anni dalla presenza di un’opposizione armata. […] Intendiamo riportare la nostra esperienza sul terreno della lotta politica aperta, di massa. […] Un terreno concreto su cui operare il passaggio politico che abbiamo di fronte è secondo noi quello della lotta per un’amnistia politica generale. Come primo passaggio chiedono il raggruppamento in un unico carcere di tutti gli arrestati per la storia dell’organizzazione, al di là delle differenze politiche, e «diffidano» chiunque in futuro a utilizzare la sigla delle Brigate rosse.
Nonostante le differenze di analisi e di affermazioni di intenti, nei fatti tutte le proposte di soluzione politica dichiarano soggettivamente chiusa una fase politica e si muovono nel quadro di una reintegrazione nel gioco «democratico», ponendo la questione della liberazione dei prigionieri fuori da un percorso di lotta rivoluzionaria, nell’ambito di una trattativa con lo Stato che non andrà in porto.
Un altro percorso nella Seconda Posizione: dal Nucleo per la Fondazione del Pcc alla costruzione del Partito Comunista politico-militare.
Le vicende della Seconda Posizione andarono fin dall’inizio a intrecciarsi con lo sviluppo del dibattito interno al carcere. La pubblicazione del libro Politica e Rivoluzione, opera di quattro prigionieri di rilievo delle Brigate Rosse – Andrea Coi, Prospero Gallinari, Francesco Piccioni, Bruno Seghetti – rappresentò un primo importante bilancio e sintesi del ciclo di lotte ancora in corso, pur se appesantito dagli eventi del 1982. Ma il notevole ruolo propulsore dello scritto fu in parte invalidato dai successivi passi dei suoi autori, che crearono incertezza e confusione anche fra i militanti all’esterno.
Una prima conseguenza fu la spaccatura, nel 1985, fra il gruppo che andò a fondare l’Unione dei Comunisti Combattenti (UdCC) e quello che si costituì in Nucleo per la fondazione del PCC.
Sostanzialmente il Nucleo accusava l’UdCC di avventurismo e tatticismo, ritenendo invece necessario impostare un lavoro di lunga fase, preparare le condizioni per arrivare realmente alla fondazione del partito, compiendo così quello che era ritenuto il salto decisivo. Proprio l’incapacità di effettuare quel passaggio, di superare una dimensione guerrigliera carica di deviazioni estremiste e soggettiviste, era considerata da tutta l’area della Seconda Posizione una causa fondamentale della sconfitta che si andava delineando. L’UdCC intendeva accelerare la ripresa dell’iniziativa combattente – posizione che il Nucleo riteneva avventurista, alla luce della situazione notevolmente critica delle residue forze militanti – associandola ad una impostazione politico-ideologica di respiro più ampio rispetto a quella delle Brigate rosse. Ma anche su questo aspetto sorsero divergenze. In risposta alle deviazioni soggettiviste, l’UdCC aveva reimpostato alcune questioni ideologiche con una forzatura di segno opposto. Dall’azzeramento del patrimonio storico del movimento comunista tipico dei soggettivisti, si passava a una eccessiva rivalutazione del lascito sovietico, arrivando ad annullare la critica maoista al socialimperialismo. Una posizione tatticamente finalizzata all’apertura di un canale di dibattito con la vasta area proletaria travolta dalla definitiva degenerazione del PCI. Queste e altre divergenze sostanziali, sulla questione sindacale o sulle strutture legali collegate al partito, non permettevano la prosecuzione di un lavoro comune.
Il Nucleo fu però fortemente travagliato da tensioni e difficoltà. Alla notevole consistenza del livello di analisi e del retroterra ideologico, nonché del percorso militante precedente di molti suoi esponenti, non corrispondeva un’altrettanto chiara determinazione sul percorso da intraprendere. La difficoltà oggettiva in cui i militanti si trovavano a fare i conti con gli stessi problemi di sopravvivenza (quasi tutti erano in esilio, in clandestinità, o reduci da carcerazioni), porterà molti all’abbandono e al riflusso in una dimensione individuale. Un piccolo gruppo di compagni decise di proseguire nel percorso, formalizzando una ulteriore ridefinizione, e assumendo il nome di Cellula per la costituzione del PCC.
Questa nuova realtà riuscì a mantenere un livello, seppur minimo, di organizzazione clandestina e armata a supportare l’elaborazione teorico-progettuale. Strumentazioni considerate preparatorie e interlocutorie, utili a ricostituire una sufficiente area di aggregazione con cui concretizzare i passaggi preconizzati verso la costituzione in PCC. I materiali, di dibattito e di iniziale elaborazione di strategia e linea politica, venivano sistematicamente stampati in formato di opuscoli intitolati Per il partito. Una pubblicazione clandestina, di cui uscirono sei numeri, a periodicità irregolare e pressoché annuale. Partendo dal principio dell’unità del politico e del militare, la Cellula riteneva la lotta armata una necessità storica, strumento fondamentale ma non unico di un processo lungo e articolato che prevede la costruzione di un partito clandestino capace di guidare le masse verso l’insurrezione e quindi la guerra civile. Ribadendo la centralità della politica e criticando le concezioni militariste, il gruppo intendeva dare un orientamento alla protesta operaia e dei lavoratori dei primi anni Novanta. I riscontri, pur significativi, non furono in grado di permettere quel salto di qualità operativo, necessario a dare consistenza e verifica alla proposta. Solo agli inizi di questo secolo l’incontro con una struttura organizzata proveniente da un’area politica diversa, quella dell’Autonomia operaia, portò all’avvio di un processo organizzativo frutto di una rielaborazione ma anche di “compromessi” necessari per la fusione, che trascineranno con sé alcune incoerenze. Il lavoro prese comunque un certo slancio, e una nuova rivista, L’Aurora, ne divenne il vettore.
Anche sul piano progettuale fu formalizzata una scansione rispetto al passato. Obiettivo principale rimaneva la costituzione del partito che però, considerando le diversità strategiche ormai nette rispetto al retroterra storico “guerriglierista”, non si riteneva più identificabile nel concetto di PCC. Una nuova formulazione sembrava sintetizzare l’impostazione maturata: Partito Comunista Politico-Militare (PCP-M).
Il percorso avviato sarà marcato da pesanti difetti e inadeguatezze che porteranno a una sconfitta tattica. Proprio nel crescendo dell’impegno operazionale, e di un discreto allargamento d’area, una retata “chirurgica” – presentata dagli inquirenti come azione “preventiva” mirante a colpire il gruppo nel momento in cui si apprestava a diventare operativo – smantellerà l’essenziale della struttura. La cosiddetta Operazione Tramonto, il 12 febbraio 2007, porta a quindici arresti e decine di indagati fra Padova, Milano e Torino, tra i quali iscritti e delegati Cgil, subito espulsi dal sindacato. Forte è l’attenzione della stampa sulla diffusa solidarietà dimostrata dai compagni di lavoro nei confronti degli inquisiti.
Negli anni successivi acquisì un certo valore la battaglia politica all’interno del carcere e durante i processi. L’impegno militante fu preciso e costante, da parte dei compagni prigionieri come di quelli esterni, riuscendo a trasformare le udienze in momenti di significativa affermazione delle ragioni e della prospettiva rivoluzionaria. Smentendo così le pretese liquidatorie con cui il potere credeva di aver seppellito le aspirazioni rivoluzionarie di classe. Questa posizione politico-strategica ha mantenuto una sua vitalità anche dopo la nuova separazione fra le due diverse aree di provenienza dei militanti.
Scheda tratta da: Paola Staccioli, Sebben che siamo donne. Storie di rivoluzionarie, Roma, DeriveApprodi 2015.
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